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Operai tra memoria e conflitto

Intervista di Susanna Cressati a Lorenzo Teodonio

… perché è li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano; perché chi esaminerà bene il fine di essi, non troverà ch’egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della pubblica libertà.
Niccolò Machiavelli
Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1519)

Hanno vinto loro. I padroni, i ricchi, i capitalisti. Hanno vinto la lotta di classe che si è combattuta per secoli. La bandiera sulla vetta conquistata l’ha piantata, tutt’altro che simbolicamente, il miliardario Warren Buffet nel 2011: “È stata combattuta una guerra di classe, e la mia classe l’ha vinta”, disse allora. Una guerra di ferocia inaudita che ha contato innumerevoli vittime. Guerra fisica, sociale, economica, politica, ideale e culturale. Di cui i “padroni del vapore” e quindi dello “storytelling” hanno saputo narrare, con proprietà e dovizia di parole, la loro versione e le ragioni del loro successo. Fino ad addentrarsi con l’arte e la letteratura nelle più intime e contraddittorie forme della loro vita.

È vero che la storia la fanno in vincitori, ma anche i “vinti” l’hanno pur vissuta quella storia e possono, dal loro diverso punto di vista, ricordarla, elaborarla, ricostruirla per farne memoria attiva anche per chi non più ha i piedi scalzi e i panni laceri delle plebi dell’Ottocento, i calli alle mani dei braccianti e dei mezzadri, la stralunata fissità dell’operaio legato alla catena della fabbrica fordista. Si può e si deve fare per i lavoratori non tutelati delle piccole imprese, per i precari di ogni settore, per gli immigrati sfruttati, per i braccianti schiavizzati, per i lavoratori della logistica, per i runner e per le badanti, per i lavoratori dei servizi, perfino per i laureati di certe professioni un tempo “nobili” e ora impietosamente scagliate in un mercato-frullatore senza regole.

Costruire una storia è cosa complessa. Costruirla dal punto di vista del popolo ancora di più. Firenze in questo è una citta fortunata, un faro culturale. Ha vissuto, nella sua componente intellettuale, politica e di base, alla nascita nel dopoguerra e soprattutto negli anni Settanta, di fondamentali studi per una storiografia del movimento operaio italiano e del movimento socialista, con vertici accademici di rara e forse oggi sbiadita intensità. Basterebbe ravvivarli per dar corpo a una storia operaia nuova e capace di incidere nelle coscienze di oggi?

Mario Tronti, storico, filosofo, politico comunista legato al tema dell’operaismo, scomparso nell’agosto scorso, ci dice di no, che questa operazione non si deve fare “per” loro, ma soprattutto “con” loro. Lo fa attraverso le pagine di un libro di cui è stato curatore insieme a Lorenzo Teodonio, “Per un atlante della memoria operaia” (DeriveApprodi 2023) che ha una ambizione progettuale che va oltre le pagine scritte. Perché Tronti direbbe di no?: “Spesso dimentichiamo – spiega nell’introduzione – che la classe è composta di persone in carne e ossa. La classe non è un concetto astratto, da maneggio di sociologi, è una realtà storica, e storicamente determinata, come recitava una volta il marxismo. Gli uomini, e le donne, che la compongono sono esseri sensibili e ragionanti, che calcano la terra, cioè la fabbrica, la produzione, di un dato tempo, diverso, molto diverso, tra una generazione e l’altra … Non si arrivava a cogliere la dimensione, si potrebbe dire, esistenziale, il dato di quotidiana vita vissuta, dell’operaio, anche dentro la sua classe. Ci è sfuggita una composizione umana di classe operaia … È il momento di vederlo dal di dentro, come persona, nel suo spazio umano, nel suo tempo di vita, come padre, come figlio, nel flusso delle generazioni che si sono susseguite in quel luogo benedetto/maledetto, che è stato, che è, la fabbrica moderna. Cambiano le forme di lotta, non la sostanza antagonista. Il sentire antagonista. Lo studio, e il racconto della mentalità operaia, mentre cambia: ecco ciò che va narrato”.

Da questa riflessione ed esortazione nasce il libro che è una raccolta di contributi singoli e collettivi (Pier Vittorio Aureli, Tina Babai Tehran, Simona Baldanzi, Tino Di Cicco, Rita di Leo, Pierangelo Di Vittorio, Alessio Duranti, Marta Fana, Angelo Ferracuti, Giuseppe Filippetta, Sergio Fontegher Bologna, Jacopo Galimberti, Giovanni Iozzoli, Alessandro Leogrande, Maurizio Maggiani, Marco Merlini, MetalMente, Giuseppe Palumbo, Alberto Prunetti, Eugenio Raspi, Andrea Sawyerr, Marino Severini, Mario Tronti, Massimo Zamboni) e insieme un volume che contiene una serie eterogenea di racconti, testimonianze dirette, fotografie e opere grafiche, tavole di fumetti, saggi storici ed attuali. Su questa eterogeneità, che però è solo formale, e sul metodo che la governa torneremo tra poco. Ora concentriamoci sui contenuti ascoltando Lorenzo Teodonio, che sta portando avanti il progetto dell’archivio e che è anche uno dei curatori dell’archivio di Tronti.

Lorenzo Teodonio, a quale “classe operaia” si riferisce il vostro libro e il vostro progetto?

Certo non più solo a quella industriale, alla “classe generale” che emancipava le altre classi, che dagli anni Sessanta in poi nel nostro paese riusciva a imporre al panorama politico italiano alcune importanti riforme che riguardavano il lavoro, la scala mobile, lo statuto lavoratori. Quella spinta propulsiva si è persa, quella forza è venuta meno. Sono arrivati gli anni Ottanta, il lavoro si è frammentato parcellizzato, “corroso”, è diventato ruggine, “poltiglia” e stenta perfino ad essere rappresentato. Il nostro tentativo di tornare alla classe operaia non è un tentativo di tornare indietro nel tempo o di affidarci a un’operazione nostalgica. Piuttosto vogliamo costruire qualcosa di forte, ricominciare a raccontare, sulle tracce della “Inchiesta operaia” di Marx, il lavoro e le professioni per quello che sono adesso, diverse e tuttavia così simili a quelle di tanti anni fa. E così ravvivare la fiammella della lotta operaia.

Un elemento importante della vostra ricerca è l’aver messo al centro dell’attenzione la composizione umana, il vissuto della classe operaia.

Nel libro facciamo esprimere in primo luogo gli scrittori operai. Molti dei contributi vengono direttamente da chi la condizione operaia l’ha vissuta e la vive ancora adesso. Volevamo far capire che cosa significa oggi per una persona mettere le mani nella catena industriale, ritornare agli aspetti antropologici e di “sensibilità” della classe operaia, come diceva uno dei nostri autori, Alessandro Leogrande, In questo quadro la scrittura diventa una forma di lotta. L’anno scorso a Campi Bisenzio gli operai del Collettivo Gkn hanno organizzato nella fabbrica occupata il primo Festival di Letteratura Working Class. È la classe “sensibile” che prende la parola, che fa toccare con mano l’essere uomini/donne operaio e che cerca di costruire un nuovo immaginario. La funzione della letteratura sociale è il farsi intellettuale da parte dell’operaio, che esprime così il pensiero della classe operaia, senza mediazioni. La scrittura riattiva il conflitto. Il conflitto ha una sua storia e una sua funzione nelle fabbriche e nella società. Il conflitto non è gesto di rabbia o una azione esemplare. Ora non c’è conflitto, e quando si accende è subito represso e duramente punito, oppure svalorizzato e annichilito. Poi c’è il tema apertissimo della rappresentanza sindacale e politica degli interessi e dei diritti dei lavoratori. Il sindacato che si cala in conflitti tutto sommato chiari, in qualche modo ancora funziona, rappresenta il lavoro, coinvolge e intercetta i giovani, i precari, i migranti. Il conflitto in politica è invece difficile da strutturare, anche perché i partiti sono cambiati e non hanno più la capacità di intercettare il conflitto. Questa situazione riguarda anche il tema della memoria: pensiamo ad esempio a quanto del patrimonio storico e di memoria della sinistra (e non solo) è andato disperso.

Questo libro ha un titolo interessante e aperto, che allude a un lavoro in corso: “Per un atlante …”. Ci puoi spiegare cosa significa in questo contesto il termine “atlante”?

Mario Tronti ha sempre avuto l’idea che bisogna invadere il campo altrui, utilizzare tutto ciò che di vantaggioso ed efficace è stato prodotto nella casa avversaria. Il fatto di usare per il nostro progetto di costruzione di una memoria operaia il lavoro di un intellettuale di stampo conservatore lo tentava. Così abbiamo cominciato, ormai una quindicina di anni fa, a studiare il metodo con cui lo storico dell’arte Aby Warburg (1866 – 1929) che ha lavorato tanto a Firenze, aveva costruito il suo «Bilderatlas Mnemosyne». Di recente agli Uffizi c’è stata un’importante mostra in cui sono stati esposti alcuni dei sessanta grandi pannelli a sfondo nero dell’atlante su cui sono accostate immagini di epoche e contesti diversi, dall’antichità al contemporaneo, alla ricerca di forme e temi ricorrenti nel tempo. Sono disposte secondo “costellazioni tematiche”, come una mappa della memoria culturale. L’opera di Warburg era continuamente in divenire, l’autore interveniva secondo i suoi studi e le sue ricerche con modifiche, aggiunte, nuove relazioni. La chiamano “antropologia delle immagini”. Ecco, questo è il nostro modello ispiratore: Warburg ha pensato di riattivare la memoria dell’arte, noi pensiamo di riscattare la memoria operaia e contribuire così a riattivare il conflitto.

Un progetto che attraversa discipline e generazioni. Come pensate di arricchirlo?

Quando andiamo a presentare il libro cerchiamo sempre di non limitarci alla pagina scritta ma di ricomporre una linea di continuità tra ricordo del passato e racconto del presente, tra diverse forme di espressione, narrativa, poesia, arti visive, cinema, musica e canto, per far percepire a tutti la ricchezza di questa storia che vorremmo trasmettere e mettere a disposizione della “classe operaia” di oggi. L’importante è infrangere il silenzio, raccontare, come diceva Tronti, la mentalità operaia che cambia mentre cambia la “classe” operaia. È un progetto per un immaginario alternativo. Un progetto di lotta.

(pubblicato su Cultura Commestibile del 10 febbraio 2024)