Tocqueville: libertà contro democrazia
I due articoli di Mario Tronti qui proposti sono dedicati entrambi ad Alexis de Tocqueville. Il primo pubblicato su il Manifesto dell’8 gennaio 1991 in occasione della pubblicazione del Viaggio in America 1831-1832 curato da Umberto Coldagelli (Feltrinelli 1990), il secondo, uscito per il Manifesto del 16 dicembre 2005, è una recensione di Vita di Tocqueville (1805-1859) scritto da Umberto Coldagelli (Donzelli 2005).
Tra i due articoli erano trascorsi 15 anni, ma la centralità teorica dell’opera di Tocqueville restava (e resta) immutata, perché, con le parole di Tronti, “L’alternativa, l’antagonismo, non è tra democrazia e autorità, ma tra democrazia e libertà. La “società democratica” coltiva in sé un germe totalitario antipolitico, che può salire dal basso come può scendere dall’alto. Tocqueville la chiamava aristocraticamente égalité des conditions. Noi oggi abbiamo altri nomi, per differenti aspetti del problema: massificazione, omogeneizzazione, pensiero unico, populismo, plebiscitarismo. La fonte è lì, La democrazia in America, e in quel libro lì, da tornare a rileggere sempre daccapo“.
Tocqueville oggi (Mario Tronti)
Umberto Coldagelli conclude con uno spunto di riflessione teorico politica la sua Introduzione al Viaggio in America, 1831-1832, di Tocqueville (Feltrinelli, 1990). Conviene partire di qui per riproporre e giudicare il tema «Tocqueville oggi».
Periodici revivals tocquevilliani punteggiano la storia intellettuale degli ultimi decenni. Come ricorda R. Nisbet, alla fine degli anni Trenta, il pensatore parigino fu posto accanto a Nietzsche, Burckhardt, Taine, Weber, Ortega y Gasset, come profeta del totalitarismo moderno e della sua particolare natura di massa, così come negli anni Cinquanta fu messo sulla scia del giovane Marx come anticipatore dell’affluent society e delle sue varie forme di alienazione. Come sostiene G. Lipovetzsky, il cosiddetto nuovo individualismo lo ha ripresentato come l’espressione postmoderna di un esito estremo delle società democratiche attuali.
Come racconta Baudrillard, oggi più che centocinquanta anni fa ritorna il paradosso di Tocqueville di un universo americano, che tende contemporaneamente all’assoluta mediocrità e all’originalità assoluta: «un universo geniale grazie allo sviluppo irrefrenabile dell’uguaglianza, della banalità e dell’indifferenza». Osserva e, appunto, conclude Coldagelli: «Non è detto che il vezzo di piegare “l’immaginazione sociologica” di Tocqueville al succedersi delle mode ideologiche non riservi ancora qualche sorpresa. Già si sente evocare il suo nome da parte di coloro che, in questi tempi di trionfalistica e definitiva identificazione tra capitalismo e democrazia, tentano di far riemergere il pigro e ricorrente sogno di un’ennesima “fine della storia”».
Tocqueville, il classico, continua ad abitare tra noi come un contemporaneo. E per sfuggire alla tentazione di attualizzare il discorso, o peggio il messaggio, della sua opera, non basta mettere a nudo le «rughe» del personaggio, come bene ha fatto Losurdo sull’Unità del 22 dicembre scorso, e cioè aristocraticismo, sciovinismo, colonialismo, ecc. è bene prenderla, quell’opera, nei suoi punti critici, nelle domande «inattuali», che Cafagna, partendo da Raymond Aron, riformula così: come è divenuta possibile la democrazia? come è divenuta impossibile l’aristocrazia? E dunque, come si è data «America» e come si è data «Rivoluzione»? Due luoghi, questi, dello spirito del tempo: uno fisico, quasi natura, un territorio, un modo di vivere, cioè uomini, un popolo, con uno stile di vita, appunto l’America di Tocqueville; l’altro, storico, un passaggio, che ha cause, sviluppi e conseguenze, adattamento «dello stato politico allo stato sociale, dei fatti alle idee, delle leggi ai costumi», appunto la rivoluzione in Francia.
In mezzo, luogo naturale e storico insieme, sta la democrazia, come la vede e come la prevede lo storico delle libertà. Rivoluzione americana è termine improprio, per gli stessi motivi per cui Hannah Arendt la considera l’unica trasformazione politica eticamente apprezzabile. Rivoluzione è in Francia. Democrazia in America. Ecco una guida per seguire i «viaggi» di Tocqueville e forse una via per arrivare a un «per la critica», in senso marxiano, della democrazia politica.
Fine gennaio 1835, lettera a Louis de Kergorlay, citatissima ed essenziale: non c’è via di mezzo tra un governo democratico e il governo di uno solo. Col tempo si arriverà o all’uno o all’altro. Questo secondo polo dell’alternativa non si fa desiderare, perché non ci sarebbero più limiti alla tirannia. Il primo non si fa amare, ma tra i due mali è il minore. In fondo si tratta di scegliere – come dirà meglio nella seconda Democrazia in America – tra la tirannia di uno e la tirannia dei più. La società è «nella situazione di un uomo che ha una ferita al braccio: la cancrena è là e avanza. È indubbiamente molto doloroso farsi tagliare il braccio. L’operazione può essere mortale. Ma non è meglio vivere monchi che morire con tutte e due le proprie braccia?».
Lettera a Eugène Stoffels, 21 febbraio 1835: ho voluto mostrare che cos’è ai nostri giorni un popolo democratico. «A coloro che si sono fatti una democrazia ideale, come sogno brillante che credono di poter facilmente realizzare, ho inteso mostrare che avevano rivestito il quadro di falsi colori… Agli uomini, per i quali la democrazia è sinonimo di sconvolgimento, di anarchia, di spoliazione e di omicidi, ho cercato di mostrare che la democrazia poteva arrivare a governare rispettando i patrimoni, riconoscendone i diritti, risparmiandone la libertà e onorandone le credenze». A tutti ho preteso dimostrare che, qualsiasi fosse l’opinione di ciascuno, non era più tempo di deliberare, che la società camminava e trascinava tutti alla scelta tra mali ormai inevitabili. Forse la volontà di Dio non era quella di riunire una grande quota di felicità su alcuni e di avvicinare alla perfezione un piccolo numero di uomini. «Dopo tutto, la volontà di Dio era quella di diffondere una felicità mediocre sulla totalità degli uomini».
Io credo che sull’edificio della democrazia, visto che ormai di un monumento si tratta, c’è da fare prima di tutto un’opera di restauro della facciata. Il tempo vi ha accumulato sopra fumo e detriti. Utile questo racconto dal vivo dei cahiers tocquevilliani, perché ci ridà l’originale. La democrazia come nasce in America è la democrazia moderna. Scarnificare ciò che appare per risalire a ciò che è, impone infatti un lavoro provvisorio di pulizia mentale. Nella politica quotidiana c’è questa impressionante indipendenza delle parole dai concetti, del discorso dal pensiero. Solo il dire nulla fa eco, mentre pensare qualcosa fa intorno il silenzio. è più facile dire: sta bene così, che proporsi di cambiare le cose.
Prendiamo un problema. Il governo democratico è sempre stato collocato nell’ambito dell’ottimismo progressista. Il governo di uno solo nell’ambito del realismo conservatore. Che cosa succederebbe se cominciassimo a coniugare pessimismo e democrazia? La scelta appunto oggi non è tra bene e male, ma tra un male minore e un male maggiore. Per questa via si otterrebbe di veder uscire dall’orizzonte la democrazia come valore e magari tornerebbe praticamente utilizzabile la democrazia come metodo, tecnica procedurale che non ha nulla a che vedere con le leve del cambiamento. Uno stare di mélancolie démocratique, come direbbe Pascal Bruckner, che così lo esprime. Poiché tutti i tentativi di stabilire il paradiso sulla terra si sono chiusi con l’avvento reale dell’inferno, ci siamo rassegnati al purgatorio.
Nulla di più lontano dall’individuo Tocqueville dell’«uomo democratico», nulla di più estraneo al suo pensiero dell’«état social démocratique». Eppure erano queste le realtà che vedeva venire avanti, come una forza della natura, dall’interno della storia. «La democrazia – scriverà ancora a Kergorlay dall’America – mi pare ormai un fatto che un governo può avere la pretesa di regolare, ma non di fermare». Questa frase che fa la gioia del neostoricismo progressista e ottimista va letta insieme all’altra, che sta nella Démocratie del ’40 e che riassume il senso degli influssi della democrazia «sui costumi»: «la democrazia allenta i vincoli sociali, ma rinforza i vincoli naturali; avvicina i membri di una famiglia e divide i cittadini». In termini marxiani, unifica il bourgeois al bourgeois, separa il citoyen dal citoyen, integra la parte privata dell’homme en general, aliena la parte pubblica.
Coldagelli accosta quelle due frasi tocquevilliane per impostare un discorso essenziale. Tra le due Démocratie c’è una frequentazione intellettuale di Tocqueville con Pascal, Montesquieu, Rousseau. L’esperienza del viaggio americano si fa qui pensiero storico sulla democrazia politica. L’idea di rivoluzione democratica si fa «ineluttabile e inquietante destino del mondo cristiano», che dal fondo dei secoli emerge alla superficie del moderno. La spinta egualitaria si rivela una forza che tende a soppiantare vincoli sociali storici per impiantare vincoli sociali naturali. Esattamente il contrario di quanto comunemente si pensa circa il rapporto tra democrazia moderna e premoderna. Come al solito, il critico conosce meglio il suo oggetto che l’apologeta. Anche perché qui la contraddizione dell’aristocratico Tocqueville è la contraddizione stessa dell’uomo democratico.
Scrive Coldagelli: «Al crollo degli antichi vincoli aristocratici non segue di necessità una sociabilità naturalmente superiore, subentra anzi il rischio di una separatezza individualistica … è la contraddizione per la quale la società aristocratica, che gerarchizza e particolarizza gli uomini, tuttavia li fa vivere organicamente insieme ed esalta gli spiriti superiori, mentre la società democratica, che pur si fonda su un’idea universale dell’uomo, separa i cittadini, predisponendoli a una mediocre acculturazione tanto diffusa quanto utilitarista».
E se rileggessimo Tocqueville come critico della democrazia liberale? Forse scopriremmo la sua vera attualità. Perché questo è il punto vero di esercizio della critica. Il pericolo infatti non è la democrazia totalitaria della società di massa, ma la «democrazia della vita quotidiana» dell’individuo naturale asociale, e dunque non certo nel senso in cui ne parlava il vecchio Lukàcs. In realtà, la democrazia moderna non tende a instaurare la tirannia della maggioranza, funziona per restaurare sempre di nuovo la libertà dell’homo oeconomicus, contro ogni istanza di libertà veramente politica, libertà cioè di persone politiche, non eguali o diseguali, ma differenti. Il paradosso della democrazia moderna è che l’uomo democratico è l’individuo non politico. Democratizzazione è spoliticizzazione. L’état social démocratique compare a questo punto come lo stadio estremo di alienazione della politica dal cittadino, lo Stato sociale di diritto degli interessi organizzati.
Non basta allora occuparsi del restauro della facciata. Bisogna occuparsi degli interni. Una volta riportato ciò che appare a ciò che è, come passare a risistemare il complesso dell’edificio? Con quale progetto teorico? E radicalizziamo ancora la domanda. Questa democrazia reale, questa che è ancora lecito e opportuno chiamare «democrazia in America», lascia ancora spazi al pensiero di un’utopia democratica? In che modo si può continuare a pensare, in forma praticamente credibile, un’altra idea di democrazia? Domande a cui si deve cercare una risposta, senza che questa risposta sia definitiva.
Anche Tocqueville si poneva le sue domande nell’Introduzione alla Démocratie del ’35. Ad alcune possiamo rispondere noi per lui. Si chiedeva: «C’è forse qualcuno che può pensare che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalismo e aver vinto i re, indietreggerà poi davanti ai borghesi e ai ricchi?». Sì, qualcuno a questo punto lo può pensare. «è possibile che si arresti proprio ora che è divenuta tanto forte e i suoi avversari tanto deboli?». Sì, è possibile.
La rivoluzione democratica non ha più nulla di «irresistibile», al pari di tutte le altre rivoluzioni. È proprio il nesso di rivoluzione e democrazia che si è spezzato, violentemente e forse senza rimedio. E non solo, come si crede, sul corpo di un esperimento di trasformazione della società, ma qui da noi, nel progetto di un governo alternativo di questa società. Meglio saperlo, prima di mettersi a coltivare, in questo freddo della storia, nuove illusioni democratiche. 25 ottobre 1831, tra Filadelfia e Baltimora, Tocqueville annota nei suoi cahiers per il disincanto di noi posteri: «Il popolo ha sempre ragione, questo è il dogma della Repubblica, come: il re non sbaglia mai, è la religione degli stati monarchici. È un grosso problema quello di sapere se uno è più falso dell’altro; ma ciò che è ben sicuro è che né l’uno né l’altro sono veri».
(pubblicato su il Manifesto dell’8 gennaio 1991)
Tocqueville, con la passione della libertà (Mario Tronti)
Il pluridecennale lavoro di Umberto Coldagelli sul “suo” autore arriva a un punto conclusivo con questa Vita di Tocqueville (1805-1859), Donzelli, pp. VIII-340, € 24,50. Un bicentenario della nascita ha avuto questa volta il merito di far rompere gli intelligenti indugi del pigro interprete, letteralmente costringendolo a una resa dei conti finale. La fortuna tardo-novecentesca di Tocqueville sta del resto arrivando anch’essa al suo culmine, con ormai diffusi richiami e rimandi a una vita e a un’opera, che profeticamente anticipava i segni e i mali dell’età presente. La verità è che il grande aristocratico, coltivando il suo raffinato disprezzo antiborghese, era riuscito a cogliere il destino già segnato che inarrestabilmente portava dalla rivoluzione democratica alla società di massa. Aveva visto prima quello che i democratici di oggi, gattini ciechi, non riescono a vedere nemmeno dopo. Bisogna fare attenzione al sottotitolo di questo libro, che poi è il vero titolo: La democrazia tra storia e politica.
È il leit-motiv, il filo conduttore del racconto di una provvidenziale esistenza che nasce in piena età napoleonica, si forma nel clima della Restaurazione, incappa nella Rivoluzione di luglio del 1830, attraversa da spettatore i moti del `48, si trova ad essere protagonista politico quando accade il 18 brumaio di Napoleone il piccolo. Nel frattempo, per un fortunoso esempio di serendipity, ha l’opportunità di compiere una seconda scoperta dell’America, una scoperta intellettuale dei caratteri del nuovo mondo così opposto e nello stesso tempo così destinale rispetto al suo caro vecchio mondo. Lo sguardo sempre sull’Inghilterra, come altro da sé rispetto alla Francia. Il mondo è al di là di questi due modelli di sistema politico-istituzionale-sociale. Intorno a tutto questo, Coldagelli dipana una esemplare forma di storia concettualmente narrata. Se il buon filosofo ha a che fare con la fatica del concetto, il buono storico ha a che fare con la fatica del fatto. Ma quando ci si trova di fronte a un autore che pensa gli eventi – e questo è Tocqueville – allora il compito è quello di districare l’intreccio tra le idee e le azioni, tra il modo di guardare una realtà che inesorabilmente per suo conto avanza e il modo di intervenire in essa per cercare volta a volta o di correggerne o di rallentarne il corso. Al di là dell’opera, è dunque la vita di Tocqueville che ci parla di qualcosa che abbiamo bisogno ancora oggi di ascoltare.
Il nostro – si sa – è un tempo senza interpreti. Gli attori non mancano, ma recitano tutti la stessa parte. La buca del suggeritore ognuno se la porta dietro, nelle cattedre, sui giornali, nei libri, sugli schermi. Solo i classici del passato sono rimasti a interpretare il tempo presente. Tocqueville, appunto.
Coldagelli sceglie un asse centrale di lettura della sua personalità: la compresenza contraddittoria, di due motivi, o motivazioni, che muovono al tempo stesso le ragioni di una vita e di una ricerca. Si chiamano: scienza politica e arte di governo. Ecco: bisogna sapere che non si dà filiazione diretta dall’una all’altra. L’una, non solo può vivere, ma vive meglio, senza l’altra, pur essendo, esse, reciprocamente indispensabili. Questo è quanto aveva ricavato dalla sua diretta esperienza. E in età per lui tarda, vista la sua non lunga esistenza, nel 1852, poteva dire ai signori dell’Accademia delle scienze morali e politiche che “fare dei bei libri, perfino sulla politica o su ciò che vi si riferisce, prepara piuttosto
male al governo degli uomini e alla conduzione degli affari”. E, se a Montesquieu fosse capitato di impegnarsi nella politica attiva, “forse la finezza alquanto sottile della sua mente gli avrebbe fatto mancare spesso quel punto preciso nel quale si decide il successo degli affari” e “invece di diventare il più prezioso dei pubblicisti egli sarebbe stato soltanto un ministro piuttosto mediocre”. Commenta Coldagelli che, certo, restava l’impegno morale di porre la propria scienza al servizio della società, ma la sua scienza in quel momento andava ripiegando nello studio delle linee profonde della
storia. “I “grossolani luoghi comuni” che muovevano il mondo d’ora in poi lo riguarderanno come storico; il politico ne era stato sconfitto, avendo avuto la pretesa di combatterli tutti, di schierarsi, come dice Fernand Braudel, comunque
contro: contro la chiusura della borghesia e la speranza socialista; contro la repubblica sociale e le pulsioni reazionarie del partito dell’ordine; contro gli operai in rivolta e la dittatura bonapartista. Contro un complesso di fatti e di idee che preparava l’oscuro futuro del mondo che gli altri non riuscivano a scorgere” (pp. 265-66).
Un aristocratico vinto che accetta la propria sconfitta: è la definizione data da Guizot, che Sainte Beuve si premurò di mettere in circolazione – dirà Schmitt – come una freccia avvelenata per colpire a morte il celebre storico. Magistrale il breve ritratto che troviamo in Ex captivitate salus. “è meraviglioso come il suo sguardo penetri la superficie delle rivoluzioni e delle restaurazioni per scorgere il nucleo fatale dell’evoluzione” che spinge innanzi le cose “verso una sempre più estesa centralizzazione e democratizzazione”. “Non parla di cose nelle quali esistenzialmente non è
coinvolto … Non si asside come il grande Hegel o il saggio Ranke nei panni del buon Dio nel palco reale del teatro del mondo … Il suo sguardo è mite e chiaro e sempre un poco triste … e non esibisce alcuna rumorosa disperazione”.
Opportunamente Umberto Coldagelli, ad apertura di libro, ci introduce nel cuore segreto del personaggio, riportando due intensi squarci autobiografici, che solo da giovani, profeti su se stessi, si possono dare. Lettera a Reeve, 22 marzo 1837: “Sono venuto al mondo alla fine di una lunga Rivoluzione che, dopo aver distrutto l’antico stato, non aveva creato nulla di durevole. L’aristocrazia era già morta quando cominciai a vivere e la democrazia non esisteva ancora; il mio istinto dunque non poteva spingermi ciecamente né verso l’una né verso l’altra. Abitavo un paese che nell’arco di quarant’anni aveva tentato di tutto senza arrestarsi definitivamente a niente, dunque non ero affatto facile in fatto di illusioni politiche …”. E poi un appunto strettamente privato, databile forse tra il 1839 e il 1840, dove fa il punto sui suoi “istinti fondamentali” e sui suoi “principi seri”: “Ho per le istituzioni democratiche un gusto della mente, ma sono aristocratico per istinto, cioè disprezzo e temo la folla. Amo con passione la libertà, la legalità, il rispetto dei diritti, ma non la democrazia. Questo il fondo dell’anima … La libertà è la prima delle mie passioni. Questa è la verità”.
Il nome di Tocqueville evoca la grande critica liberale della democrazia. Un passaggio ineludibile per il pensiero politico contemporaneo. La Démocratie en Amérique, 1835 e 1840, è stata una geniale anticipazione del Novecento, come secolo democratico e come secolo americano. Secolo americano e russo, secondo la profezia tocquevilliana. In fondo, capitalismo reale e socialismo reale hanno sperimentato due differenti forme di potere del popolo. L’alternativa, l’antagonismo, non è tra democrazia e autorità, ma tra democrazia e libertà. La “società democratica” coltiva in sé un germe totalitario antipolitico, che può salire dal basso come può scendere dall’alto. Tocqueville la chiamava aristocraticamente égalité des conditions. Noi oggi abbiamo altri nomi, per differenti aspetti del problema: massificazione, omogeneizzazione, pensiero unico, populismo, plebiscitarismo. La fonte è lì, La democrazia in America, e in quel libro lì, da tornare a rileggere sempre daccapo.
E invito a leggere chi non lo ha ancora fatto. Proprio in questi giorni ne è uscita una nuova edizione italiana, per le sempre più interessanti Città Aperta Edizioni: due volumi, a cura di Mario Tesini e nuova traduzione di Sara Furlati, al prezzo di 22 euro.
Proseguiva Tocqueville in quella lettera, citata, del `37: “Ero così ben in equilibrio tra il passato e l’avvenire da non sentirmi naturalmente e istintivamente attratto né verso l’uno né verso l’altro, e non ho affatto avuto bisogno di grandi sforzi per gettare uno sguardo tranquillo dalle due parti”. Se la democrazia era il cupo avvenire che avanzava, la rivoluzione era il cupo passato che incombeva.
La grande opera della maturità sarà infatti L’Ancien Régime et la Révolution, che uscirà nel 1856. Coldagelli ha cura di sottolineare l’assoluta originalità dell’impostazione tocquevilliana, rispetto alla storiografia corrente, sia liberale che democratico-repubblicana. C’era stata una sostanziale continuità del processo storico, data da quell’accentramento statuale e amministrativo, tipico della vicenda istituzionale francese, che era passato indenne dal prima al dopo della Rivoluzione. E se è vero che l’altra grande lettura antirivoluzionaria era stata quella di Burke, è vero anche che qui “la logica burkiana veniva letteralmente rovesciata: non solo la tabula rasa in quanto discontinuità assoluta non c’era stata, ma ciò che era sopravvissuto dell’Antico regime era proprio l’elemento “perverso” su cui si erano innestate la violenza e la tirannia rivoluzionarie”.
Insomma. Che cos’è un classico? è colui che, parlando del suo tempo, ci fa capire il nostro tempo. Per chi sa leggere obliquamente, cioè con gli occhi del pensiero, questa personalità dell’Ottocento sembra a volte parlare metaforicamente del nostro Novecento.
E allora voglio dire una cosa. Non sono sicuro che questo sia il libro giusto da scrivere al momento giusto à propos de Tocqueville. Forse il genere biografico non era il più adatto, per un uomo di tanto pensare e di così scarso agire.
Umberto Coldagelli appartiene a quella costellazione che giornalisti di scarsa fantasia non sanno definire altro che come ex-operaista. Storico formatosi alla scuola di Chabod, è intellettuale politico di mente acuta, di sensibilità inquietamente curiosa, di cultura raffinata. Il tema era quello del sottotitolo: la democrazia tra storia e politica,
traduzione del motivo tocquevilliano tra scienza della politica e arte del governo. Un testo più scarno e incisivo e un affondo più polemologico sarebbero state due scelte più opportune. Si trattava di decostruire, con una strategia intellettuale di attacco, il significato e la portata di quell’attuale identificazione di democrazia e America, che è il dato egemonico incontrastato con cui abbiamo a che fare.
Tocqueville, a duecento anni dalla nascita, meritava, una nietzscheana “considerazione inattuale”, in grado di gettare il sasso, anzi il macigno, nella palude delle idee quotidiane. O è forse l’editore ad essersi mostrato allergico alla critica politica, quella di spigolo, e di tendenza, di conflitto? Critica politica, non critica della politica. Ce n’è già troppa di questa in giro. E non fa che gonfiare il cerchio dei “grossolani luoghi comuni”. Vorrei capire e non riesco ancora a farlo, come si fa a spezzare l’egemonia del pensiero di tutti che si esercita su ognuno.
Abbiamo costruito il paradiso delle idee dominanti. Ogni occasione, anche la recensione di un libro, tanto più la scrittura di un libro, va colta per tentare disperatamente di riaccendere una battaglia delle idee dalla parte “contro”: senza giocare sempre di rimessa rispetto all’offensiva che viene dai pulpiti dei vescovi, dalle cattedre dei neoconservatori, dalla piazza degli animali televisivi, dall’opinione corrente che detta legge, costumi, comportamenti, perfino sentimenti, perfino pensieri.
Eppure – diceva Tocqueville – “l’epoca attuale è triste ma non è oscura”. E aggiungeva: “riesco ad essere tranquillo, ma non certo gaio”.
(pubblicato su il Manifesto del 16 dicembre 2005)