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Catastrofe dell’Europa e ritorno ad Husserl

Il testo che segue vuol essere una sorta di introduzione a questa sezione del sito Dello spirito libero, curata dal gruppo Epimeteo. Ci è stata offerta l’occasione di offrire un contributo e abbiamo ritenuto di accettare, dal momento che il nostro rapporto con Mario, nonostante una evidente discontinuità tra la nostra e la sua elaborazione teorica, si è tuttavia mantenuto forte “in divergente accordo” lungo la linea rossa della ricerca sul “politico”. Inoltre, non possiamo che ribadire come un ulteriore e profondo elemento di affinità con Mario è sempre stata la radicale contrapposizione allo stato di cose presente e la volontà rivoluzionaria di trasformarlo.

I materiali che periodicamente offriremo alla lettura saranno fondamentalmente incentrati attorno alla questione di una possibile idea politica d’Europa, un eidos politico, che faccia i conti con quella che consideriamo come un’autentica catastrofe teologica-politica, cioè quella che si è determinata lungo il ciclo della cosiddetta “seconda guerra dei Trent’Anni”. Infatti, la diagnosi che chi scrive formula a proposito della presente condizione politica dell’Europa è estremamente drastica: l’attuale Unione Europea, frutto di ottant’anni di attivismo politico dell’europeismo che si è forgiato all’indomani della seconda guerra mondiale, è certamente un’associazione economica ad alto livello di integrazione, ma ha ben poco a che vedere con un’associazione politica degna di questo nome. Da questo punto di vista, l’Unione Europea è poco più che una confederazione a bassa integrazione, dal momento che in primo luogo ogni entità politica che di essa fa parte gode di amplissimi margini di autonomia rispetto al centro politico dell’Unione (si pensi anche solo al fatto che la politica estera è tuttora quasi del tutto di competenza degli “Stati” membri). Inoltre, le istituzioni politiche che dovrebbero rappresentare l’unità dell’unione dal punto di vista politico sono ancora estremamente deboli. Infine, il recente conflitto in Ucraina, un evento in cui l’elemento del “politico” è venuto alla luce in tutta la sua intensità (in quanto guerra), ha nel modo più chiaro messo in evidenza come l’Unione Europea e i suoi organi siano sostanzialmente subalterni ad un’altra alleanza, questa volta militare, cioè la NATO, che notoriamente è politicamente guidata dagli Stati Uniti d’America. In sostanza, la UE è un’associazione economica politicamente subordinata ad un’associazione politica, gli USA.

Del resto, non potrebbe che essere così. Il Novecento è stato il secolo della finis Europae, dell’autodistruzione del sistema delle potenze europee, che aveva esteso la sua egemonia sull’intero pianeta per tre secoli, dal XVII al XIX, che aveva trovato la sua espressione ordinamentale in quello che è stato chiamato jus publicum europaeum, che è imploso a causa delle contraddizioni tra le varie entità politiche che lo costituivano, lasciando sul terreno un cumulo di macerie, non solo materiali, ma innanzitutto spirituali, nel senso che in quel ciclo di guerre e rivoluzioni l’autocoscienza della civiltà europea, nella sua presunzione di essere la guida spirituale dell’intera umanità, è andata rovinosamente in pezzi. Perciò, dal nostro punto di vista la “crisi dell’Europa”, che preferiamo contrassegnare con il termine “catastrofe” per sottolinearne l’intensità, non si è risolta semplicemente nel crollo di un sistema plurale di potenze imperiali, ma in un autentico sprofondare dei fondamenti spirituali che avevano segnato la vita dei popoli europei per secoli. Il dilagare dello scetticismo e del relativismo, già evidente nella seconda metà dell’Ottocento e che ha trovato il suo culmine nella critica decostruttiva nicciana, si è risolto in una regressione verso una radicale depoliticizzazione e nel rifugiarsi all’interno di una logica economica che misura il livello di civiltà nei termini matematici degli indicatori macro-economici e che trova il solo ancoraggio in un’etica eudemonistica del “benessere”, che esaurisce il senso dell’esistere nel raggiungimento di una sorta di nirvana, costituito da una condizione psico-fisica che soddisfa in ultima analisi il bisogno di pace e tranquillità interiore. Di una “esistenza politica”, della “vocazione” ad essa e dell’assunzione di “responsabilità” che da essa deriva non vi è più traccia da diversi decenni in Europa, soprattutto dopo che, a partire dagli anni Ottanta e dal crollo dell’Unione Sovietica, l’ultimo, pallido fantasma dell’amico/nemico, cioè la lotta di classe, si è dissolto nel trionfo totale dell’“ordine” liberaldemocratico-capitalista. Da questo punto di vista l’espressione Welfare State non designa più un’entità politica, ma l’amministrazione di servizi al fine, eudemonistico appunto, di garantire quel minimo sindacale di benessere che, peraltro, sempre più viene assicurato non tanto dall’istanza pubblica dello State, quanto piuttosto da una gestione privatistica che segna il dilagare senza più limiti della logica del profitto.

In effetti, si può affermare che, a partire dal secondo dopoguerra, si è aperto un nuovo ciclo storico, all’interno del quale ancora ci troviamo, in cui quello che era stato il ruolo dell’Europa in termini non solo di Weltpolitik, ma appunto di guida spirituale dell’umanità è stato assunto dagli Stati Uniti. Infatti, gli USA hanno espresso da allora un’autocoscienza non solo di potenza egemonica dal punto di vista politico, economico e militare, ma hanno preteso di assurgere ad un ruolo escatologico-messianico tale per cui ad essi compete la funzione di giudice di ultima istanza all’interno della cosiddetta “comunità internazionale”. Ciò dipende dal fatto che fin dalla loro origine gli Stati Uniti si sono autocompresi come l’anticipazione prolettica del Regno di Dio sulla terra, dal momento che hanno interpretato se stessi e le loro istituzioni politiche ed economiche, cioè la connessione tra liberaldemocrazia e sistema capitalistico del libero mercato, come il compimento escatologico della storia. Come è noto, lo schema temporale del messianesimo cristiano è quello del “già/non-ancora”, per cui l’evento escatologico ha già avuto compimento nella incarnazione del Figlio del Padre in Gesù di Nazareth, nella sua morte e resurrezione, ma attende ancora il suo compimento definitivo nel ritorno di questi nell’Ultimo Giorno. In modo analogo, il settarismo spiritualista protestante, che ha dato vita agli Stati Uniti alla fine del XVIII secolo, ha potuto concepire il popolo americano come il novello soggetto redentore che nel Nuovo Mondo, nella nuova terra promessa al di là dell’oceano, poteva erigere una nuova Gerusalemme, che avrebbe costituito un’anticipazione prolettica della futura umanità redenta, estesa all’intero globo. Non a caso, soprattutto nel ventennio compreso tra la caduta del muro di Berlino e la crisi finanziaria del 2008, in America si è potuto sostenere che si era ormai giunti alla “fine della storia”, ossia ad una condizione in cui una parte dell’umanità, quella occidentale, aveva “già” raggiunto il compimento di senso della storia, mentre alla parte restante non restava che adeguarsi a quel modello escatologico.

Il messianesimo ha costituito, a nostro parere, l’autentica linea di continuità di senso della cosiddetta civiltà occidentale: dalla missione di evangelizzazione, alla missione di civilizzazione, alla missione di democratizzazione, che sarebbe però meglio definire come missione di americanizzazione che ha tentato di informare a sé la vita dell’intera umanità.  Non è stato casuale dunque che, nel momento in cui, nel 1945, l’Europa doveva piegarsi su se stessa, sulle sue rovine e sulle sue colpe, emergessero due potenze messianiche globali che hanno potuto dividersi il corpo del nostro continente in due sfere d’influenza, gli Stati Uniti, di cui si è già detto, e l’Unione Sovietica, che del resto non rappresentava altro che un’ulteriore variante secolarizzata di quel messianesimo che aveva segnato di sé l’intera storia, bimillenaria, di quello che è stato chiamato l’”eone cristiano”. In effetti, così come gli USA, anche l’URSS esprimeva un’altra forma di secolarizzazione del messianesimo e del dio redentore, quella genialmente intravista già a metà Ottocento da Karl Marx. Infatti, cos’era il proletariato, nella filosofia della storia marxiana, se non quel soggetto sociale che portava a compimento, escatologicamente, l’intera storia dell’umanità come storia delle lotte di classe, quel soggetto rivoluzionario che liberando se stesso avrebbe liberato l’umanità nella sua totalità? Quell’idea filosofica, che per tutto l’Ottocento aveva trovato il suo correlato politico nelle lotte operaie e nella formazione delle prime organizzazioni del movimento operaio, dai partiti socialisti ai sindacati, si era infine incarnata nella potenza politica di un partito rivoluzionario, una sorta di New Model Army, il partito comunista prima leniniano e poi staliniano, che aveva combattuto vittoriosamente la guerra civile opponendosi ai controrivoluzionari “bianchi”, che si era trasformato in partito-stato e infine aveva sconfitto le armate naziste e aveva conquistato l’intera Europa orientale. Lungo le rive dell’Elba e a Berlino, il messianesimo americano e quello comunista, al termine del secondo conflitto mondiale, si erano prima incontrati e poi scontrati. Sulle macerie dell’Europa divisa dalla cortina di ferro e dalla confrontation tra NATO e Patto di Varsavia, si è combattuta per quasi cinquant’anni quella Guerra Fredda che infine, nell’ultimo decennio del Novecento, ha visto il trionfo del cosiddetto “mondo libero” e il crollo dell’URSS. L’Europa, completamente integrata in quel “mondo libero”, ha nel frattempo del tutto dimenticato la sua identità “spirituale”, la sua differenza rispetto all’identità imperiale americana, da cui è stata ormai fagocitata. In un vecchio film di Wim Wenders, Nel corso del tempo (1976), due giovani trentenni tedeschi discutono sul peso e sul ruolo degli americani nella Germania del secondo dopoguerra, e l’uno dice all’altro: “Ci hanno colonizzato l’inconscio.” È difficile trovare un’espressione più adeguata per esprimere il grado di subalternità del senso comune dei popoli europei rispetto all’egemonia culturale e, per così dire, pulsionale degli Stati Uniti.

I materiali che verranno presentati nella sezione di questo sito curata da Epimeteo prendono quindi le mosse da una constatazione e da una domanda. La constatazione si configura in quello che è stato scritto fin qui: l’Europa è politicamente morta da ottant’anni e questa diagnosi non può essere falsificata dall’esistenza in vita dell’Unione Europea, perché questa unione non è una unità politica, e men che meno una unità politica che in qualche modo possa svolgere un qualche ruolo sul terreno della Weltpolitik. La domanda può essere in estrema sintesi riassunta in questi termini: è possibile una genesi politica dell’”umanità europea” nella forma di una istituzione politica unitaria di carattere federale (e non meramente confederale)? Si usa qui l’espressione “genesi politica” e non “resurrezione politica”, perché la vecchia Europa delle “magnifiche sorti e progressive” si è definitivamente inabissata nelle trincee della prima guerra mondiale e per essa non vi è alcuna possibilità di resurrezione. Del resto un’Europa politicamente unita non è mai esistita e quell’entità che ha dominato il mondo dal Seicento all’Ottocento è stato un sistema plurale di potenze e non certo un’unità politica, un sistema di potenze unificato dalla volontà di dominio e dalla missione di civilizzazione di cui si sentiva investito, ma nello stesso tempo percorso da linee di frattura così profonde che infine ne hanno provocato l’implosione. Dunque, si tratta di pensare qualcosa di nuovo, che certamente è stato già pensato in quel movimento federalista europeo che è sorto fin dagli Anni Trenta, ma non con la necessaria radicalità teoretica: si tratta cioè di pensare l’unità politica dell’Europa occidentale sulla base di un eidos, di un’idea direttiva che sappia definirne l’identità autonoma all’interno del cosiddetto Occidente, e che quindi sappia delineare il senso e il fine, il telos, di tale unità politica dell’umanità europea rispetto alle linee di frattura che percorrono, e sempre percorreranno, l’umanità nel suo complesso. “Umanità europea”, quindi, come correlato di quell’unità politica, e non “nazione europea” e questa distinzione è fondamentale per due ragioni: in primo luogo perché la storia dell’Europa è ancora così insanguinata dalle nefandezze del nazionalismo che il solo pensare alla riesumazione del termine “nazione” come fattore identitario della nuova Europa suscita un moto di ripulsa. In secondo luogo, il correlato di quella unità politica di cui qui si vuol tentare di delineare le condizioni di possibilità non può essere che l’”umanità europea” perché l’identità europea che qui si vuol pensare non può essere altro che qualcosa in cui è intenzionato l’universale, in cui agisce una forza che vuole avere una proiezione universale correlata all’umanità nella sua totalità. Si tratta cioè di pensare la domanda sulla possibilità della genesi dell’unità politica di una nuova Europa all’interno della domanda sul senso dell’umanità europea per l’umanità nel suo complesso.

È questo il motivo per cui in questa ricerca di un nuovo eidos politico dell’Europa avrà un ruolo fondamentale il pensiero di Edmund Husserl, che si è incarnato in quella particolare modalità di filosofare nota come fenomenologia trascendentale. Husserl infatti è stato il pensatore del Novecento che più di ogni altro si è posto il problema del telos dell’Europa con la massima radicalità, interrogandosi cioè sulle radici della catastrofe e sulle possibilità di un suo superamento.

Del resto, il più noto dei suoi libri porta il titolo di La crisi delle scienze europee e questo testo prende avvio da una conferenza tenuta a Vienna nel maggio del 1935 e titolata La crisi dell’umanità europea e la filosofia. Quello che a noi appare come decisivo in Husserl è il fatto che egli non si sia mai rassegnato al “tramonto dell’Occidente”, al progressivo adagiarsi della civiltà europea nello scetticismo e nel relativismo teoretico, che infine non faceva altro che produrre un processo culturale di deresponsabilizzazione, una rinuncia alla presa di posizione teoretica di ultima istanza. Nella sua interpretazione, la vocazione alla filosofia aveva la sua origine nella volontà di verità. Certo, Nietzsche gli avrebbe obiettato che la volontà di verità non è altro che un’espressione della volontà di potenza, quella pulsione che, appunto, in ultima istanza, determinava ciò che è, ben al di là dell’umano. E tuttavia a Nietzsche Husserl avrebbe potuto a sua volta obiettare che anche quella presa posizione, per cui la volontà di verità è volontà di potenza, non può essere assunta come un presupposto inindagato, ma deve essere verificata, ossia deve essere a sua volta sottoposta alla verifica dell’alternativa tra il vero e il falso. In tal modo, il criterio della verità si rivela come un apriori, un trascendentale che sta a monte di qualsiasi affermazione, di qualsiasi presa di posizione linguistica, per cui il linguaggio stesso è predeterminato da quel criterio. Contro lo scetticismo relativista imperante, dunque, Husserl riaffermava la volontà di verità e di una verità criticamente vagliata:

“La riflessione si realizza originariamente, nella volontà. Il soggetto, in quanto si determina come soggetto filosofico, prende, infatti, una decisione di volontà che investe la sua vita conoscitiva futura. (…) [Il soggetto filosofico] determina se stesso come un soggetto che, ininterrottamente, vuole soltanto una conoscenza assolutamente giustificata, sistematica e universale, cioè una filosofia. Da questa volontà riflessiva traggono origine le meditazioni circa il senso di questo scopo e circa la possibilità della sua realizzazione.” (E. Husserl, Filosofia prima, Rubbettino 2007, p. 9)

Ma la radicalità di tale decisione della volontà per la verità non può risolversi in un anelito momentaneo, ma a sua volta si trasforma in qualcosa che esige stabilità, ossia in una condotta di vita coerente con quella decisione:

“Questo radicalismo assoluto, però, per chi vuole diventare filosofo in senso autentico, comporta una corrispondente decisione di vita, radicale e assoluta, che trasforma la sua vita in una vita caratterizzata da una vocazione assoluta.” (Ivi, p. 14)

La comparsa, nelle ultime parole di questo passo, del termine “vocazione” indica una chiara predelineazione di un possibile collegamento con un altro autore che occupa un grande spazio nelle ricerche che Epimeteo sta conducendo e di cui cercheremo di render conto su questo sito, ossia Max Weber, a partire, naturalmente, dal Weber della politica e della scienza come professione. E infatti, anche in Husserl la “vocazione assoluta” ad una vita animata dalla volontà di verità si traduce in “professione”; infatti, “il soggetto che si determina come filosofo sceglie la conoscenza suprema (o filosofia) come fine ultimo assoluto della propria vita e di tutti i suoi desideri, sceglie la filosofia come la propria vera <professione> [Beruf], che egli ha assunto come propria missione, decidendosi per essa una volta per tutte, alla quale egli si è votato assolutamente in quanto io pratico.” (Ivi, p. 15) Ci sarà modo di tornare, nel seguito di queste ricerche, sull’espressione che chiude il passo ora citato, su quell’“io pratico”, che già da solo è un indice chiaro che sfata il mito di un Husserl dedito alla pura teoresi della teoresi, magari esclusivamente in chiave epistemologica, senza alcuna attenzione alla “ragion pratica” ed anzi, a quella “politica”. Per ora restiamo sull’intreccio weberiano tra decisione della volontà, vocazione e professione. Non è casuale allora, che proprio in questo contesto di meditazioni, faccia la sua comparsa un altro termine che indica un tema centrale nelle nostre ricerche, quello di istituzione. Scrive infatti Husserl:

“Egli [il filosofo] necessita di una decisione autentica che lo istituisca, in primo luogo e originariamente, come filosofo. Ha bisogno, per così dire, di un’istituzione originaria, che è un’autocreazione originaria. Nessuno può <andare a finire per caso> nella filosofia.” (Ivi, p. 24)

Immediatamente viene in mente un’espressione di Arnold Gehlen, quella di “personalità come istituzione”, ovverosia di un io che ha superato la sua naturalità immediata, ha condotto a termine una messa in forma del suo esistere esattamente sulla base di quei concetti di decisione, vocazione, professione che si sono appena presi in esame e quindi ha saputo configurare una “condotta di vita” (un altro concetto weberiano decisivo) in vista di un fine, di un telos.

Come è noto, uno degli snodi fondamentali della fenomenologia trascendentale husserliana è quello rappresentato dall’epoché, intesa non solo come sospensione del giudizio, ma soprattutto come radicale “messa fuori circuito” del mondo. Ebbene, si potrebbe sostenere allora che l’Europa della seconda guerra dei trent’anni ha subito, per così dire in modo del tutto involontario, una tale epoché, una sorta di “riduzione” al nulla politico del proprio “mondo circostante”. Si tratta allora di interrogare questo evento involontario, di farlo proprio a partire da una volontà di verità che vuole  indagare la possibilità che quella riduzione al nulla possa essere trasformata in una riduzione all’eidos dell’ego trascendentale e dell’intersoggettività europea come il nucleo irriducibile di un senso della storia dell’umanità europea che, nonostante la catastrofe, è ancora in grado di generare vita politica, comunità politica, Lebenswelt in senso politico, ossia contrapposto all’American way of life.