xeniteia

Xeniteia. Contemplazione e combattimento

Marcello Tarì - Mario Tronti

È molto dubbia la verità di questa idea ormai entrata nel senso comune, secondo cui vivremmo in tempi apocalittici. L’impressione che se ne ricava dai vari discorsi che si rincorrono nell’infosfera è quella di una certa superficialità, di un cedimento generalizzato allo «spettacolo» dell’apocalisse, non certo di una sua assunzione in senso genuinamente profetico. L’immaginario di massa è ispirato dai film e le serie tv hollywoodiane, più che dal grande libro che Giovanni scrisse nel suo esilio a Patmos.

Il bisogno – perché di un bisogno si tratta – di introdurre l’anomalo discorso che qui proponiamo non nasce per iniziativa del virus, viene da più lontano e dal più profondo. È stato detto da una voce profetica del Novecento, e da questo partiamo, che la vera catastrofe è che le cose restino come sono. Si è oggi più semplicemente e comunemente abbacinati da un disagio di civiltà che sempre più investe le nostre esistenze fin nell’intimità, mostrandoci come il capitalismo sia diventato, se non lo è già sempre stato, un «modo di distruzione» piuttosto che un modo di produzione. Diremo allora che l’attuale pandemia globale ha solamente rivelato questo stato del mondo. Eppure l’apocalisse, nel senso comune mediatico, piuttosto che assumere questa rivelazione in quanto contestazione del mondo, anzi, più precisamente, della «mondanità», come è sempre accaduto nella tradizione apocalittica, viene vissuta come una affermazione paradossale di questa.

Si è così tanto avvolti e attraversati dallo spirito mondano che le evidenze diventano come invisibili e le menzogne appaiono come evidenze. È anche per questo che l’adottare la postura di quei primi monaci dell’età cristiana, cioè di estraniamento, xeniteia nel greco dei Padri e peregrinatio in latino, rispetto alla società dominante e alla propria identità sociale, ci sembra oggi così necessario. Così evidente.

Farsi stranieri, «nel mondo ma non del mondo», anche per provare a sovvertire il senso della «distanza sociale», che da misura di profilassi rischia di mutarsi velocemente in una misura di intensificazione dell’atomizzazione, per altro già estrema, degli uomini e delle donne, assumendo invece come compito quel «pathos della distanza» che Nietzsche poneva agli spiriti liberi non solo come critica dell’atomismo, ma come il modo affermativo per il quale ogni forza viva si rapporta a un’altra.

È, o dovrebbe essere abbastanza noto, che le relazioni tra cristianesimo delle origini, monachesimo e poi struttura ecclesiastica, con la vicenda storica e in un certo senso teologica del comunismo – inteso come movimento di liberazione universale non riducibile al solo marxismo – sono esse stesse in qualche modo originarie.

Se Ernst Troeltsch parlava a proposito delle comunità cristiane apostoliche e dei primi secoli di un «comunismo d’amore», Walter Benjamin affermò senza giri di parole che la società senza classi, predicata dal comunismo moderno, non era che una secolarizzazione del regno messianico. In questo senso, dovremmo forse completare la famosa sentenza schmittiana che afferma che «tutti i concetti della dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati», con quella di «tutti i concetti della dottrina rivoluzionaria sono concetti teologici secolarizzati».

A ben guardare è come se nella storia del comunismo le due parti in questione, teoria dello Stato e teoria della rivoluzione, si siano a un certo momento incontrate, poi combattute, quindi integrate e infine arrivate a un comune punto cieco, al contrario di quella della Chiesa, in cui istituzione e destituzione appaiono come contenute in uno stesso recipiente che nella storia ha oscillato ora da un lato, ora dall’altro, senza mai però che una delle due forze venisse annientata dall’altra e scomparisse del tutto, e questo è uno tra i «misteri» che ci piacerebbe indagare. Infatti né il cristianesimo né il comunismo sono riducibili a delle dottrine o possono essere identificati integralmente in una istituzione: ogni volta che lo si è fatto si è sempre andati incontro a un grande disastro. L’uno e l’altro sono innanzitutto parte di una storia, una tradizione vivente che per entrambe è, originariamente, quella degli oppressi, degli sfruttati, degli umiliati e offesi.

Ma se alla comparsa nella modernità di un «cristianesimo senza religione», come acutamente diagnosticato da Dietrich Bonhoeffer, corrisponderà poi un comunismo senza dogmatica, bisogna riconoscere che alla pur difficile vitalità bimillenaria della Chiesa, non ha corrisposto una durata del partito o dello Stato che andasse oltre qualche decennio.

Diceva il vescovo brasiliano Helder Camara: quando dò da mangiare ai poveri, mi dicono che sono un santo, quando chiedo: perché i poveri non hanno da mangiare, mi dicono che sono un comunista. A fronte di tutto questo discorso, è perciò abbastanza comico vedere i reazionari accusare alcune figure della Chiesa, quando queste predicano o agiscano in favore dei poveri e con i poveri, di essere dei «comunisti», quando è piuttosto evidente che è il comunismo ad aver sempre avuto un piede malfermo nella tradizione giudaico-cristiana. Ma vale, questa annotazione di costume, anche per quanto concerne il campo del comunismo, cioè quando coloro che pongono come dirimenti questioni teologiche, a partire ovviamente dall’escatologia, sono stati e vengono trattati a loro volta come degli «eretici» oppure semplicemente non capiti, se non addirittura compatiti o derisi.

Ivan Illich ha sostenuto che, al contrario di quanto comunemente si crede, quella contemporanea, malgrado e anzi a causa della cosiddetta secolarizzazione, dell’essere il cristianesimo una minoranza nel mondo e persino della sua perversione in quanto religione, è l’epoca più pienamente cristiana che vi sia stata finora. Allora, al di là della cosiddetta morte delle ideologie e del fallimento storico delle realizzazioni, forse potremmo, forse dovremmo dire che quella attuale è un’epoca di pienezza anche per il comunismo, se solo riuscissimo a vedere oltre la fitta nebbia della chiacchiera mediatica.

Ci interessa in particolare la storia del monachesimo, a partire da quello più antico, quello dei Padri del deserto, passando per le esperienze ai margini e al di fuori dell’istituzione, basti pensare al beghinaggio e alla celebre eresia del Libero Spirito, fino ad arrivare ad oggi, alle tante esperienze contemporanee di invisibili comunità dove si pratica vita eremitica o cenobitica. Allora, la scommessa che ci sentiamo di fare, con la modestia necessaria e tutte le cautele possibili, è un metterci, quasi come discepoli, sull’onda lunga di quel monachesimo che nei secoli si è fatto straniero al mondo così com’era, e non semplicemente per rifiutarlo, ma per combatterlo. Nessuna suggestione della fuga mundi, non un meccanismo di difesa, piuttosto l’apertura di un nuovo fronte di attacco, che non abbandona altri fronti ma si aggiunge ad essi, una volta misurata e verificata la specifica necessità dei tempi.

In questo modo pensiamo di andare a leggere, nelle sue diverse pratiche, anche interreligiose, la possibilità di pensare cosa significhi o possa significare per noi oggi tenere insieme una dimensione contemplativa e una di combattimento. Poiché la vocazione, la chiamata del monaco e della monaca, non consiste solo nell’ascoltare e curare la propria interiorità, ma risponde al grido della realtà e ad essa obbedisce. Guardare solo dentro di sé, apre inevitabilmente la porta al demone della tristezza, mentre la stessa parola «contemplazione» allude a uno sguardo libero verso il cielo che ispira l’azione.

Il monachesimo si è poi posto e ha cercato di risolvere, in maniere differenti e tutte da indagare, le grandi questioni del come vivere insieme, dell’abitare il sé e il mondo e di una testimonianza del «regno messianico». Un regno, ci è stato annunciato, che è già tra noi. Se noi lo vogliamo. Questioni che hanno sempre attraversato i movimenti rivoluzionari e che negli scorsi anni hanno occupato molti di noi senza che arrivassimo a un pensiero e una pratica convincenti. Tanto più si ripropone oggi, dentro un tempo di radicale sospensione della vita sociale che ci interroga duramente non solo sulle forme della produzione ma specialmente sulle forme della vita stessa.

Vita mondana e regno, solitudine e comunità, istituzione e destituzione, la forza e la grazia, lo spirito e la legge, la contemplazione e il combattimento, ognuna di questa coppia di parole ci riporta al mistero del mondo, della storia e di quella che chiameremmo la dimensione dell’oltre.

Un grande filosofo del Novecento abbastanza dimenticato, Brice Parain, che era soprattutto uno strano comunista e uno strano cristiano, scriveva negli anni ‘40 che con i soviet in Russia era nato il primo ordine monastico dell’età contemporanea e che proprio al comunismo apparteneva la dimensione contemplativa del «silenzio», un silenzio militante in attesa della Parola. Ecco, riuscire a comprendere che cosa volesse dire Parain con questa «bizzarra» teoria e portarla a nostra volta ad una maggiore elaborazione, potrebbe costituire un altro dei temi affrontati in questo spazio di riflessione e di indagine.

(Con questo articolo, pubblicato il 14 maggio 2020 sulla versione originaria di questo sito, Marcello Tarì e Mario Tronti davano avvio a una rubrica intitolata Xeniteia. Contemplazione e combattimento)