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Quell’interrogare senza tregua di Carl Schmitt

«Ho troppo scarso interesse pratico per me stesso e un eccessivo interesse teorico per le idee dei miei avversari»: come si fa a non amare un pensatore che dice così la forma del suo pensiero? Questo pensatore è Carl Schmitt. Il 7 aprile di cinque anni fa moriva a Plettenberg, un villaggio della Westfalia, dove era nato 97 anni prima. Scompariva, come si disse subito, l’ultimo dei classici della teoria politica. Dell’autore da lui più amato, Thomas Hobbes, aveva ripreso accanto a molti temi anche l’esempio della lunga vita operosa. Quando, per il novantesimo compleanno, Ernst Jünger gli scriveva mandandogli auguri e complimenti, Schmitt rispondeva: «la vecchiaia è finita, adesso comincia l’età dei patriarchi».

Questo poter dire da vivo: la vecchiaia è finita, credo che solo una vita di pensiero possa permetterselo: quando è vissuta in situazioni diverse, a volte anche buie, alla luce della coerenza con se stessi. Jünger diceva una cosa che può riferirsi anche a Schmitt: che quando la vita di un uomo presenta un’unità questo deriva dal suo carattere. In un altro luogo dirà che ciò che importa è «di essere fedeli al proprio stile». Così si può dissentire dalle dure asserzioni del pensiero politico schmittiano, ma con ammirazione, e si può consentire alle soffici idee che comunemente lo combattono, ma senza amore.

Molto, se non tutto, è stato detto specialmente in Italia negli ultimi dieci anni su questo teorico della decisione, inventore del criterio dell’amico-nemico, sostenitore della teologia politica, appunto tutte ardue sentenze per il bene educato intelletto liberaldemocratico che nel decennio ha avuto la sua nuova resistibile ascesa. Non si tratta dunque di tornare a raccontare Schmitt né tantomeno di riscoprirlo da sinistra, gli scandali è bene che avvengano, ma ognuno una volta sola … Il problema è piuttosto un altro. Ci troviamo senza dubbio di fronte a un pensiero politico che nel parlare di oggi si direbbe “forte”. È, dunque, esso ormai inattuale? Il quesito non è lontano da quello che riguarda una persona di nome Marx.

Pensiero politico forte non è quello che mette nell’azione pratica supreme finalità conclusive della storia, coinvolgimenti totalizzanti della vita degli individui, dedizione cieca alla ragione degli strumenti. Questo è un pensiero dogmatico, teologico, ma non politico. Pensiero forte è quello che fa i conti con i dati duri della realtà, ne prende atto e dall’analisi delle leggi di movimento va a scoprire le risposte politiche concrete. È pensiero sintetico che attraversa precisi corpi di analisi. Marx, attraverso la critica dell’economia politica, arriva alla sua idea della lotta fra classi sociali. Schmitt, attraverso la critica della storia del diritto, arriva a una sua idea del conflitto politico per lo Stato. L’analogia nella forma del pensiero a volte conta di più che la distanza nei motivi, nei contenuti, nei campi di applicazione.

Quella di Schmitt è una forma di pensiero critico. «Senza il presupposto di una fondamentale curiosità, nel senso di un interrogare ininterrotto e mai definitivo, non si dà realmente alcuna libertà spirituale». Sono sue parole. Le scrive nelle «Desolate vastità di un’angusta cella», dove è rinchiuso tra il ’45 e il ’47, per supposta collaborazione con il regime nazista. È lui che ha parlato per primo, avanti di qualche decennio rispetto agli storici revisionisti tedeschi, di “guerra civile” per la condizione dell’Europa tra le due guerre. Eppure, diceva, sebbene sia accaduto più volte nella storia universale che intere civiltà venissero estirpate sin dalle radici, questo non è accaduto nella storia dello spirito europeo. E anche «in casi sciagurati di terrore politico» energie spirituali e intellettuali non solo si sono conservate, ma ricaricate. «Lo spirito ha un suo orgoglio, una sua tattica, una sua inalienabile libertà e, perdonate, persino i suoi angeli custodi, e tutto questo non solo tra coloro che sono emigrati, bensì anche all’interno, tra le grinfie del Leviatano stesso. Sinora questo spirito in Europa ha sempre saputo trovare le sue cripte e le sue catacombe, le sue nuove forme e i suoi nuovi metodi».

Il pensatore reazionario ci dà speranza per il futuro. Vorremmo ripetere per l’oggi quello che diceva per l’esperienza tragica del suo passato: «in Germania lo spirito ha ancora una volta giocato abilmente il Leviatano». Ma pur con la migliore disposizione d’animo, non c’è luogo a un’età dell’ottimismo. La condizione europea più di quanto non fosse sotto gli sciagurati casi di terrore politico, sembra oggi prossima a una catastrofe di civiltà. Si possono fare salti di gioia per gli eventi dell’89, ma in realtà sono le vecchie forze che guidano la danza. Ecco perché ritorna d’attualità la metafora schmittiana di Benito Cereno, l’eroe del racconto di Melville, come «simbolo della situazione in cui versano gli intellettuali in un sistema di massa». Una dimensione pubblica libera può non essere meno pesante, per lo spirito, di una dimensione pubblica organizzata dal potere statale: fino a riproporre, in un duro periodo di passaggio, «la differenza tra autentica e falsa dimensione pubblica e la forza opposta del tacere e del silenzio», quella segreta via che conduce verso l’interno l’anima di un popolo e dei suoi individui. Ex captivitate salus titolava Schmitt queste sue riflessioni: anche questa una metafora attuale?

(Articolo pubblicato su L’Unità del 7 aprile 1990)