Per Toni
Massimo Cacciari
È morto un filosofo di rilievo internazionale, uno dei pochissimi italiani contemporanei a esserlo, amico e collaboratore dei Deleuze, dei Matheron, dei Guattari, autore di opere che hanno segnato la discussione politica come Empire, pubblicato con Hardt dalla Cambridge University Press nel 2000 e tradotto in tutte le lingue (in Italia per Bur con il titolo Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione). Augurabile che tutti coloro che vorranno parlare della scomparsa di Toni Negri lo sappiano e lo ricordino, augurabile che gli interventi sulla sua fine non si riducano alla miserabile misura delle cronache nostrane. Se si dovrà, come anche si dovrà, parlare della sua storia politica, che ciò avvenga all’altezza delle tragedie dell’epoca che ha, e abbiamo, attraversato tra anni Sessanta e Ottanta, senza tirare ancora in ballo le follie giuridico-storiografiche di chi lo indicò come ispiratore, se non addirittura “grande vecchio”, del terrorismo brigatista. Follie che gli costarono anni di galera e di esilio – e ad altri anche peggio.
Certo, il pensiero di Toni Negri è prassi. Ma nel senso profondo che il pensiero quanto più è radicale, quanto più esige di procedere al fondo della cosa, tanto più è obbligato a manifestare il proprio punto di vista, la propria parzialità. Non esiste obbiettività astratta, forse nemmeno nelle scienze “pure” – impossibile là dove il proprio oggetto siano le forme di vita, il multiverso dell’agire umano, delle sue intenzioni, dei suoi desideri. Vivendo al loro interno per conoscerle tu sei chiamato a deciderti – a decidere da che parte stare, quali di essi, e portati da quali soggetti, vuoi difendere, promuovere, rendere potenti. Era l’atteggiamento fondamentale, e che appartiene per me all’autentica filosofia, proprio di Negri, del tutto analogo a quello di coloro con i quali, tra anni Cinquanta e Sessanta, iniziò la sua esperienza teorica e politica, da Alberto Asor Rosa a Mario Tronti, che l’hanno preceduto di pochi mesi nel transito. Sì, dico transito, perché per uno spinoziano come Negri tutto si trasforma, tutto si rigenera e nulla crepa.
Il pensiero, se è, è critico nella sua essenza. E cioè sta per natura dalla parte del “potere costituente” (Il potere costituente, Carnago, 1992), del potere che eccede ogni status quo, ogni determinazione statuale-istituzionale. Il concetto di democrazia vive soltanto se connesso a questa dimensione del potere, se mantiene viva, aperta la dialettica tra il sistema “costituito” e il movimento
creativo e imprevedibile che incalza dalla moltitudine.
Moltitudine si intitola il libro con Hardt che segue Empire nel 2004. Moltitudine viene qui chiamato il proteiforme soggetto, il demos globale che l’Impero espropria di ogni “bene comune”, imprigiona nelle “leggi” dello scambio e del mercato, ma che tuttavia manifesta, per Negri, reali potenzialità rivoluzionarie, non solo capacità di mobilitazione (di “sommossa” avrebbe detto Marx). Soggetto del “potere costituente” era la classe operaia, che si organizza “eccedendo” il suo essere forza-lavoro, per l’operaismo degli anni Sessanta, il cui capolavoro fu Operai e capitale di Mario Tronti. Stagione chiusa con la grande trasformazione organizzativa, tecnologica, politica del capitalismo globale, dopo la fine della Guerra fredda. Compimento di cui sono testimonianza le ingloriose fini delle socialdemocrazie europee. Il soggetto rivoluzionario tramonta, allora, per sempre o ne muta la figura?
Il pensiero rivoluzionario è destinato a divenire puramente escatologico, oppure è ancora in grado di informare di sé un potere costituente reale? Impossibile, risponde Negri, che possa finire. E qui si rivela il suo essere filosofo – impossibile perché appartiene alla nostra natura volere, volere inesauribilmente soddisfare il conatus che ci agita sempre (malgrado tutti i tentativi di metterlo a tacere): essere attivi, agire incondizionati, o condizionati soltanto dal nostro amore per l’altro, lavorare nel senso del creare, considerando la natura e i prodotti del nostro lavoro come beni comuni. Il filosofo di questa idea radicale di democrazia è Spinoza – ma non solo lo Spinoza sovversivo del libro del 1981 (Anomalia selvaggia, Feltrinelli), anche quello della Parte V dell’Ethica, dell’amore intellettuale di Dio, dell’eternità, che Negri affronta in saggi successivi. Così scrive in una delle sue pagine più intense, del 1993: «L’idea di democrazia e quella di eternità si toccano, si misurano l’un l’altra». Sì, ne sono certo, è qui il punto in cui si deciderà (o già è tutto deciso?) se globalizzazione può significare soltanto la religione dell’indefinito progresso da scopo a scopo, l’Impero delle grandi potenze economico-finanziarie fagocitante in sé ogni altra sovranità, oppure se invece dal suo stesso interno possono determinarsi contraddizioni tali da produrre nuovi soggetti e nuove prassi rivoluzionarie all’altezza della “rivoluzione” in atto nei rapporti sociali e di produzione.
Se questi nuovi soggetti emergeranno, il loro pensiero non potrà che muoversi in quel solco: concepire la democrazia come quel potere sempre costituente che vuol dar ragione dell’affermazione del valore eterno del nostro esserci. All’alma Venus lucreziana Negri ha dedicato un saggio del 2000. Il grande studioso di Cartesio e Spinoza, di Hegel e di Dilthey, attinge la sua fiducia da Lucrezio, e cioè dal più rivoluzionario dei classici: la Natura, la phyisis dei Greci, è generazione ininterrotta, in nessun stato potrà arrestarsi. Physis si esprime nella molteplicità infinita dei viventi, e la moltitudine ne è l’espressione politica. Al politico spinoziano spetterebbe il compito di cogliere il momento opportuno, il kairòs, per renderla vincente. Si può essere disperati intorno a tale possibilità, ma non vedere la forza della sua idea, non coglierne la necessità, direi, rispetto a quelle che corrono per i mercati. Essa ha in sé, certamente, tutta la carica del negativo – ma l’uomo non nasce libero e la libertà si afferma soltanto nella lotta contro l’esigenza di ogni “potere costituito” ad apparire legge di natura o destino cui ci sarebbe dato soltanto
di obbedire.
(La Stampa – 17 dicembre 2023)
Gigi Roggero
Sì, io temo – che processioni e mausolei, – con la regola fissa dell’ammirazione, – offuschino d’aciduli incensi – la semplicità di Lenin; io temo, – come si teme per la pupilla degli occhi, – ch’egli venga falsato – dalle soavi bellezze dell’ideale
Vladimir Majakovskij, Vladimir Ilic Lenin (1924)
Era l’alba del nuovo millennio. Il millennio che si apre con la globalizzazione sulla bocca e la crisi nel grembo. Il millennio inaugurato, nel novembre del 1999, dalla manifestazione di Seattle: è un nuovo ciclo di movimento globale a inquietare i sonni di chi pensava di aver vinto definitivamente la lotta di classe e chiuso i conti con la storia, altro che millennium bug. In quello snodo, Toni Negri insieme a Michael Hardt formula l’ipotesi del formarsi dell’impero: non più l’imperialismo degli Stati-nazione, ma un nuovo ordine mondiale senza centro, in cui si mescolano poteri democratici, monarchici e aristocratici. E ipotizzano, innanzitutto, il formarsi del soggetto che a quell’ordine resiste e si contrappone, la moltitudine che sembra riempire le piazze del movimento no global.
«Allora, che cosa farà adesso professor Negri, tornerà a fare la rivoluzione?». A parlare con malcelato rancore era un giornalista di sinistra, conduttore di una trasmissione a cui Toni era stato invitato, in un periodo in cui stava finendo di scontare la semi-libertà. Dall’altra parte si alza quella risata, famosa e indimenticabile per chiunque abbia avuto il piacere o il timore di ascoltarla. «Ma la sto già facendo». Fine della trasmissione.
Ecco, questo è Toni. L’incarnazione, una delle più straordinarie del secondo dopoguerra, del desiderio di rivoluzione. Diciamo di più, e poi chiariamo subito: Toni era una figura ossessionata. Parliamo di ossessione non nei termini del giudizio valoriale o della sentenza patologica, come vorrebbe l’industria della cura. Ne parliamo in termini sintomatici: l’ossessione come sintomo del desiderio. Lo aveva colto l’occhio conservatore di Solženicyn in un romanzo poco conosciuto e, forse proprio per questo, di grande importanza: Lenin a Zurigo immagina un dirigente bolscevico che non pensa ad altro, pronto a tutto pur di tornare a Pietrogrado. Perché è là che un rivoluzionario dev’essere, perché là c’è una tendenza possibile, di minoranza, il cui sviluppo dipende dalle forze soggettive. Virtù e fortuna, diceva Machiavelli. E un bel po’ di culo, aggiungeva Mario Dalmaviva. Ecco, la verità è questa: un rivoluzionario è una figura ossessionata, ed è ossessionata perché è guidato dalla potenza del desiderio. Insomma, non c’è rivoluzionario senza desiderio di rivoluzione. Questa è la prima lezione che impariamo da Lenin, da Toni e da tutti coloro che non si limitano a non accettare lo stato di cose presente, ma si mettono interamente in gioco per mandarlo gambe all’aria.
La rivoluzione, ci ha spiegato il nostro maestro, non come evento salvifico, catartico o palingenetico. La rivoluzione come forma di vita. Non sono solo belle frasi, si tratta di dura e faticosa realtà. Una forma di vita contraddittoria e problematica, sempre inquieta e mai tranquilla. Ce l’ha raccontata Anna nel suo bellissimo lessico famigliare che porta il titolo, altrettanto stupendo, di Con un piede impigliato nella Storia. Sempre per parafrasare una nota considerazione, chi attende un rivoluzionario puro e senza contraddizioni non lo vedrà mai, e si condanna a non capire che cosa significhi la rivoluzione come forma di vita.
Del resto, c’è un aspetto nella sua biografia che viene troppo poco ricordato: a poco più di trent’anni Toni era il più giovane professore ordinario italiano, della prestigiosa cattedra di Dottrina dello Stato all’Università di Padova. Avrebbe potuto avere una serena e soddisfacente vita da grande intellettuale, stimato e riconosciuto da tutti. O magari poteva essere un intellettuale impegnato, mantenendo separata l’opinione e l’azione. O ancora, poteva essere un intellettuale organico, obbediente alle indiscutibili esigenze di un partito-feticcio. E perché no, poteva essere un intellettuale attivista, forma omeopatica della militanza senza rischi diffusasi nei decenni successivi, scelta da docenti che prendono posizione su tutte le ingiustizie del mondo purché siano lontane dalla propria area di sicurezza accademica. Invece no, non era questa la sua forma di vita. Ha scommesso sul desiderio. Ha scommesso tutto quello che aveva e che avrebbe potuto avere. E nel mondo feudale dell’università, abitata da tromboneschi baroni e servi pusillanimi, è questo che non gli hanno mai perdonato. Decretando per il mezzo secolo successivo la messa al bando dell’intelligenza dall’accademia. Questo bando è la prosecuzione del 7 aprile con altri mezzi, e qualche volta con gli stessi.
Non ripercorriamo qui ciò che Toni ha fatto, sarebbe un compito presuntuoso e peraltro, in questa sede, piuttosto inutile. Quello che potremmo dire in poche righe, infatti, chi legge questo testo già lo sa. Né vogliamo disegnare un’icona senza macchie e chiaroscuri, lasciamo volentieri questa gratificazione ai numerosi adulatori di professione, che ieri come oggi certo non mancano. Il suo problema, dal nostro punto di vista, non è che abbia visto ciò che non c’era, come gli è stato tante volte imputato dagli stolti – o filistei, si sarebbe detto un tempo. Il problema è che spesso ha visto ciò che non ci poteva essere. O, per dirla con termini familiari a chi viene dalla tradizione dell’operaismo, ha scambiato la composizione tecnica per composizione immediatamente politica, o lo sviluppo del capitale per sviluppo del soggetto antagonista. Oppure, ha pensato che la brillantezza dell’intelligenza individuale potesse, in certi momenti, fare a meno della fatica dei processi collettivi. Tutto ciò fa parte di una discussione aperta: non su ciò che è stato, ma su ciò che può essere.
Il punto da sottolineare qui è però un altro: a guidare Toni, nei suoi limiti e non solo nelle sue ricchezze, è stato sempre, appunto, quel desiderio di rivoluzione, quell’esigenza di provare a forzare sempre in avanti. No, non tanto nell’entusiasmo delle fasi alte dei movimenti. Forzare, innanzitutto, nelle fasi di riflusso, di sconfitta, di frammentazione. Così è stato negli anni Ottanta e Novanta, in piena controrivoluzione capitalistica. Altrove è giusto dibattere la sostanza di quelle forzature. Qui diciamo solo che, dentro l’oscurità, hanno avuto la forza di puntare sulla luce, di combattere rassegnazione e ripiegamenti depressivi, di tentare di rovesciare la prospettiva. Facendolo, sempre, con un pensiero divisivo. Già, divisivo, utilizziamo appositamente l’espressione che oggi tanto orrore suscita tra i sinistri democratici. Perché il pensiero politico è sempre divisivo, cioè divide una parte dall’altra, l’amico dal nemico. Quando tutti parlano bene di qualcuno, significa che quel qualcuno non ha la capacità di esprimere un pensiero politico, oppure di esprimere un pensiero. Perché quel «tutti» è un’astrazione dell’universalismo moderno, cioè capitalistico. E se oggi Toni riesce ancora a dividere, vuol dire che ha fatto tutto ciò che un rivoluzionario deve fare.
Chi lo ha conosciuto oltre che letto e studiato, sa che era alieno da qualsiasi nostalgia, passione triste per cui provava una naturale ripulsa, anche a costo di flirtare con il progresso capitalistico. Proprio questa attitudine, mossa da un’insaziabile curiosità, lo rendeva particolarmente attento ai giovani. Si confrontava alla pari, non per una malintesa umiltà (che brutta parola), ma perché sapeva che quella tra «maestro» e «allievo» è sempre una relazione maieutica, in cui i ruoli di chi insegna e chi impara si scambiano continuamente, nutrendosi vicendevolmente. In questa relazione non dava mai nulla per scontato: come le grandi figure della nostra patristica operaista (Mario, Romano e tutti gli altri) ti costringeva continuamente a pensare autonomamente, a non ripetere il già noto, a costo di toglierti a ogni passo il terreno da sotto i piedi. Così, in quel nietzscheano elogio dell’assenza di memoria c’era non una rimozione del passato, bensì una continua riapertura rivoluzionaria della storia.
Insomma, caro Toni. In questo tempo di grigia mediocrità, in cui a farla da padroni sono i maestri cattivi, quanto avremmo bisogno di una nuova generazione di cattivi maestri. Di quelli che insegnano a cercare, sempre, l’aurora dentro l’imbrunire.
(Machina – 18 dicembre 2023)
Etienne Balibar
La prima cosa che mi ha colpito di lui, oltre alla sua figura incredibilmente giovanile a qualsiasi età, è stato il suo sorriso unico, a volte carnivoro, a volte ironico o pieno di affetto. Mi colpì la prima volta che ci incontrammo, fuori da un seminario al Collège international de Philosophie. Era fuggito dall’Italia grazie a un’elezione che lo aveva temporaneamente liberato dal carcere. Eravamo sconvolti dall’ascesa del reaganismo e del thatcherismo, che avevano mandato in frantumi le illusioni nate dalla vittoria socialista del 1981. Cosa potevamo fare in questo sfacelo? “Ma la rivoluzione!” ci spiegava Toni, raggiante di ottimismo: avanzava attraverso innumerevoli movimenti sociali, uno più inventivo dell’altro. Non sono sicuro di averci creduto davvero, ma ne uscii libero dai miei umori neri, e conquistato per sempre.
Non avevo seguito il famoso seminario sui Grundrisse di Marx, organizzato nel 1978 all’ENS da Yann Moulier-Boutang, che mi avevano detto essere tanto affascinante quanto esoterico. E non sapevo quasi nulla dell’operaismo, di cui era uno delle teste pensanti. Per me Negri era questo teorico e praticante dell’“autonomia operaia”, che lo Stato italiano, incancrenito dalla collusione dell’esercito e dei servizi segreti americani, aveva cercato di farne la mente del terrorismo di estrema sinistra – un’accusa che è crollata come un castello di carte, ma che lo ha mandato dietro le sbarre per anni. Prima e dopo il suo soggiorno, circondato da compagni dalle vite ora più calme ma dalle passioni intatte, fu il pilastro di quella Italia francese, immagine speculare della Francia italiana che avevamo sognato prima del ‘68. Insieme, attorno ad alcune riviste e seminari, avrebbero dato il via a una nuova stagione filosofica e politica. Negri, con le sue provocazioni e i suoi studi, ne sarebbe stato l’ispiratore.
Mi limiterò a darne qualche indicazione ellittica, scegliendo i riferimenti secondo le mie affinità. Spinoza, naturalmente. Dopo il fragore de L’anomalie sauvage (1982 per l’edizione francese, preceduto dalle prefazioni di Gilles Deleuze, Pierre Macherey e Alexandre Matheron) sono arrivati altri saggi all’insegna delle parole sulle quali si interrompe il Trattato politico del solitario di La Haye: «il resto manca». Questo resto, al contrario di altri, Negri non ha provato a ricostruirlo, ma ad inventarlo, seguendo il filo di una teoria della potenza della moltitudine, che fonde la metafisica del desiderio e la politica democratica, contro ogni concezione “trascendentale” del potere, frutto della collusione stretta tra il diritto e lo Stato. Spinoza, l’anti-Hobbes, l’anti-Rousseau, l’anti-Hegel. Il fratello degli insorti napoletani dai quali aveva preso in prestito la figura. Non si è mai smesso di discutere per e contro questo “Spinoza sovversivo”, che ha lasciato il segno nella grande Spinoza-Renaissance contemporanea.
Passiamo al problema della libertà e dell’emancipazione del lavoro, che parte da Spinoza per convergere con Foucault, ma anche con Deleuze, per il profondo vitalismo all’opera nell’opposizione tra biopolitica degli individui e biopotere delle istituzioni. Essa reinscrive all’interno dell’idea stessa di “potere” l’opposizione precedentemente stabilita tra questa e la “potenza”, e autorizza a riprendere, come essenza stessa del processo rivoluzionario, il vecchio tema leninista del “doppio potere”, ma trasformandola da un’opposizione Stato-partito a una opposizione Stato-movimento.
Le fondamenta di questa tematica si trovano già nel libro del 1992 su Il potere costituente (tradotto nel 1997). Per me è uno dei grandi saggi di filosofia politica dell’ultimo mezzo secolo, in dialogo con Schmitt, Arendt, i giuristi repubblicani, sulla base di una genealogia che risale a Machiavelli ed a Harrington. Ogni potere costituito è preceduto da un’insurrezione alla quale cerca di “porre fine” per addomesticare la moltitudine, trovandosi correlativamente a confrontarsi con l’eccesso di potere costituente rispetto alle stesse forme rivoluzionarie di organizzazione che si da.
Torniamo a Marx per concludere. Negri ne è stato un lettore e un continuatore, in un’incredibile combinazione di letteralità e di libertà. Marx oltre Marx (1979) vuol dire portare Marx al di là di sé stesso, e non “confutarlo”. Questo era già il senso delle analisi della “forma-stato” ai tempi dell’operaismo militante. È quello della geniale estrapolazione delle analisi dei Grundrisse su il macchinismo industriale (il general intellect), che assumono tutto il loro significato all’altezza della rivoluzione informatica e del “capitalismo cognitivo”, di cui permettono di cogliere l’ambivalenza dal punto di vista delle trasformazioni del lavoro sociale. Una lotta permanente tra “lavoro morto” e “lavoro vivo”.
Ed è questo, sicuramente, il senso della grande trilogia scritta insieme a Michael Hardt: Impero (2000), Moltitudine (2004), Comune (2010), seguiti da Assemblea (2017), in cui, contro la tradizione del “socialismo scientifico” e la sua problematica della transizione, si costruisce la tesi dagli accenti francescani e lucreziani di un comunismo dell’amore che c’è già, non nei “pori” della società capitalista come aveva scritto Marx ripreso da Althusser, ma nelle resistenze creatrici alla proprietà esclusiva e allo stato di guerra generalizzato del capitalismo “globalizzato”, come lo incarnano le rivolte e gli esperimenti che rinascono continuamente, con i nuovi “comuni” che fanno esistere.
Sempre, quindi, quel famoso ottimismo dell’intelligenza, che capiamo ora non avere niente a che fare con l’illusione di un senso garantito della storia, ma piuttosto con l’articolazione produttiva tra conoscenza e immaginazione, le “due fonti” della politica. Toni ci lascia oggi la forza del suo desiderio e dei suoi concetti. Senza dimenticare il suo sorriso.
(Le Monde – 21 dicembre 2023)
Marcello Tarì
«Il professore», così, celiando, chiamavamo Toni Negri tra di noi, giovani attivisti dell’altermondialismo montante. Conoscevo da tempo i suoi antichi testi incendiari, ma di persona l’ho incontrato solo quando, dall’esilio francese, tornò in Italia alla fine degli anni ’90 per scontare il resto della pena a cui era stato condannato in uno dei più celebri processi politici del nostro dopoguerra.
Cominciammo a scriverci quando rientrò nel carcere di Rebibbia – un fatto che mi indignò moltissimo – e iniziai ad andare a trovarlo quando lo misero in semilibertà, ottenuta anche grazie all’amicizia di don Luigi Di Liegro. Poi, quando, nei primi anni del nuovo millennio, fu finalmente libero e si spostò a Venezia, grazie al contemporaneo invito che ricevetti da Luca Casarini, lo seguii e, così, per qualche anno, lavorammo insieme, incontrandoci quasi tutte le settimane.
Era il periodo in cui pubblicò Impero insieme al filosofo statunitense Michael Hardt, un libro importante per lo sviluppo dei nuovi movimenti globali, che divenne uno dei bestseller politici più di successo di sempre.
Politica sovversiva
Come fanno tutti i professori, quando mi sedevo nello studio di casa sua, mi offriva il rituale calice di vino bianco e mi interrogava. L’interrogazione consisteva in un fuoco di fila di domande: ti incalzava e, infine, ti sfidava a esprimere un pensiero, a fare un briciolo di analisi, a dare un giudizio. Il voto? Lo dovevi ricavare dall’espressione del viso, una gran risata, un sorriso benevolo oppure un sibilo o una smorfia di rimprovero. E poi dalle mie parole, un breve commento o una lunga dissertazione con cui tirava le somme della conversazione. Ma cosa chiedeva il professore di questa strana materia che ci appassionava e che si sarebbe potuta chiamare Teoria e pratica della politica sovversiva?
«Come è andata la manifestazione, chi c’era dei collettivi, dei sindacati e dei partiti? che composizione sociale c’era in piazza? cosa è accaduto? – E all’assemblea, chi l’ha spuntata? – Che succede all’università? Ti lasciano libero? – Ma quella lotta, quello sciopero, laggiù, che ne sai? è interessante? si può vincere? – Cosa vedi e senti in giro per il mondo, per le città, nei quartieri? – Hai letto questo libro? che ne pensi? – Conosci per caso quel compagno, che ne dici? – E tu, come stai, come te la cavi, che bisogni hai?».
Le interrogazioni erano il preliminare del lavoro politico da fare insieme, collettivamente: produrre inchieste, riviste, seminari, think thank della nuova politica rivoluzionaria, elaborare strategie di lotta puntuali, bonificare e tracciare strade inedite nella giungla della metropoli postfordista, rifare al contrario tutto il percorso dello sfruttamento capitalista per trovare i punti d’attacco.
Ti insegnava, pazientemente, discutendo e praticando insieme, come organizzare ciascuno di quegli strumenti di conoscenza per farne modelli di intervento politico e di avanzamento nello studio. Erano lezioni colme di entusiasmo ed era facile volergli bene.
Vita e lotta di classe
Comunque sia, in quel suo riportare qualsiasi passione ed elemento della vita alle regole supreme della lotta di classe, è vero pure che c’era in lui una sorta di cinismo che poteva risultare indigesto. Anche se bisognerebbe aggiungere, almeno così mi è parso di capire nel tempo, che il cinismo è in qualche modo consustanziale alla pratica politica in generale. Il tragico è che il cinismo porta inevitabilmente a infliggere e a ricevere ferite, tradimenti, oltraggi e, infine, non può che deludere. Forse anche a questo si deve una certa amarezza che risuona negli ultimi interventi pubblici di Negri.
Nei giorni in cui terminava il nostro rapporto, avemmo, ad esempio, una discussione molto accesa sull’amicizia. Laddove io sostenevo che l’amicizia doveva essere potenza e base del fare politica nella verità, lui opponeva che ero un illuso, che in politica l’amicizia non era affatto qualcosa di necessario e comunque, nel caso, doveva essere sacrificata sull’altare della necessità.
Probabilmente aveva ragione, se consideriamo la realtà della politica del mondo, ma resto convinto che, senza l’amicizia, senza volersi bene fino in fondo, si rischia seriamente di umiliare e di uccidere il meglio di ciò che siamo, dentro e fra di noi. È molto triste pensare a quanto di bello si è stati capaci di distruggere calpestando l’amicizia in nome delle logiche mondane della politica. Eppure, so con certezza che non è mai l’ultima parola, che lo Spirito è capace di sorprenderci e suturare le più grandi ferite.
La forza dell’odio
L’altra cosa che non sono mai riuscito veramente a ritenere del suo insegnamento, nonostante ci abbia pure provato, è la centralità che Negri dava all’odio sia in quanto passione conoscitiva che come razionale motore dell’agire. Una volta gli chiesi cosa ne pensasse di un libro pubblicato da un suo vecchio compagno, in cui si narrava di alcuni episodi chiave delle lotte degli anni ’70 a Milano e che, a parecchi di noi giovani, era piaciuto molto. Lui si fece serio e mi disse che no, non gli era piaciuto affatto e anzi lo disapprovava perché «non c’era abbastanza odio».
Onestamente, rimasi senza parole. Personalmente ho sempre creduto, al contrario, di aver cominciato giovanissimo a frequentare i luoghi della lotta politica per amore, sulla spinta di una irragionevole fame e sete di giustizia e d’amore, e credo che ciò mi abbia sempre preservato dal coltivare un sentimento d’odio, per chiunque. Non è affatto vero, come diceva Spinoza, che l’indignazione deriva dall’odio per qualcuno che ha fatto del male ad un altro: mi indigno e mi ribello per amore del fratello offeso, oppresso, umiliato. Ma è proprio per la potenza dell’amore che posso persino arrivare, nella lotta stessa, ad amare anche colui che offende e opprime, ovvero il nemico.
Insomma, fu inevitabile che le nostre strade a un certo punto divergessero. L’ho rivisto un’ultima volta qualche tempo fa, incontrandolo per caso in un ristorante berlinese: mi salutò sorridendo con il pugno alzato.
Tuttavia, negli ultimi scritti e interviste di Negri – al di là delle note di dolore per la guerra e di rabbia per il fascismo avanzante – l’amore pare sovrastare e vincere sull’odio; risuonano, perciò, di una certa religiosità, che, pur se da lui apparentemente risolta sempre nei termini del materialismo militante, si tocca con la rivoluzionaria fede in Cristo Gesù, che io ed altri suoi vecchi allievi abbiamo ritrovato o ricevuto in dono lungo la via.
Malgrado tutto e tutti, caro Toni, indimenticabile professore di rivoluzione, il bene che ti ho voluto resta ben presente e vivo. Chissà se ti avrebbe teneramente sorpreso che alcuni di noi hanno pregato per te nell’ora della tua morte e che nello stesso istante – mi sono poi reso conto – abbiamo proprio tutti sperato che san Francesco fosse lì, sulla soglia di quel «fuori» che è più «dentro» di ogni cosa, ad accoglierti con i suoi e i tuoi poverelli, nella pace e nella gioia del cielo, per preparare ancora e sempre il Regno che viene.
(Settimana News – 2 gennaio 2024)
Luhuna Carvalho
The situationists once claimed they had a father they loved, DADA, and a father they rejected, Surrealism. For many of us, Toni Negri was both. Too young to have witnessed them first-hand, the Italian seventies form one of our last reigning myths. Whether we know it or not, most of our experiences of struggle, from the squats to the squares, have taken place within its remnants and fragmented repertoires, as the only real collectivity we’ve known.
The Negri we loved was the Negri who sidelined a promising and comfortable academic career to become an agitator. It was the Negri who taught us how the rage, anger, despair, hate, and alienation we felt was nothing but a feverish desire for both a different life and a different world, nothing but a strange and profound passion for our comrades, nothing but a thorough and obsessive dedication to the abolition of the tyranny of capital. It was the Negri who claimed that ricominciare da capo non significa andare indietro (starting over again doesn’t mean going backwards), transforming Potere Operaio into Autonomia, establishing a method of rupture that celebrated the proletarian refusal of the melancholic and institutional memory of the left. It was the Negri who read every concept of vulgar economics as a category of antagonism. It was the Negri who showed us a dignity, ardor, and joy inherent in the act of struggle that is out of reach for the cynicism of critique. It was the Negri who took Marx’s claim that communism was “the real movement of abolition” in a literal way, grasping how moments of struggle were also moments of communion, and hence were also instances of something to come.
The Negri we rejected, with an impatience reserved only for those one loves, was the Negri of the Sisyphean chase after the next collective subject, each new hypothesis dissolving into smoke, one after another. It was the Negri who claimed that every social fad was a novel expression of “resistance,” without ever really explaining why or how. It was the Negri who turned post-operaismo into a bland sociology. It was the European Union Negri, the universal basic income Negri, the constituent Negri, the democratic Negri, the accelerationist Negri, etc.
There is, in reality, no opposition between the balaclava Negri and the citizen Negri. Upon his death we have to admit, in all honesty, that such a distinction was our own invention. Negri was thoroughly consistent. The continuity in his thought lay in how his Beckettian optimism was intrinsically woven into his philosophical and political work.
It all began with Classe operaia’s legendary red paragraph, Tronti’s “copernican turn”, now almost a psalm: “we must invert the problem, change the sign, restart from the beginning, and the beginning is class struggle.” It was struggles themselves which had forced capitalists to create capitalism and their most advanced expressions still direct capitalist development. The English translation of Tronti’s seminal statement, however, has always sounded slightly awkward. In the original one reads lotta di classe operaia (industrial class struggles), not just lotta di classe (class struggle). The primacy of struggles was grounded on the specific social being epitomized by the Italian post-war industrial working class, rather than on labor as whole. The spontaneous and creative antagonism of this industrial working class came from a singular conjunction between economic inclusion and political exclusion that only really came into its own within the closed space of the factory. The political ontology of operaismo was founded on the difference between the operai and the working class as such.
Negri’s take on Tronti’s theory of the primacy of struggles over capital abolished this difference, a gesture at once brilliant and cursed. The essence of such antagonism wasn’t any sort of productive labor per se but rather the very specific conditions of separation and alienation suffered by those operai. The extension of capitalist command over social reproduction meant that that separation and alienation could now be found everywhere.
In observing the shift whereby class antagonism spread from the factory into the metropolis, Negri developed the conceptual tools to name, arm, and organize such diffuse antagonism. In doing so he developed a theory of a communism that was immediate and immanent to struggles in themselves. Communism was not the prize awaiting the endless drudgery through the haphazard stages of dialectical materialism, it was already here, present in the violent, radical, and collective intelligence taking place within a thousand acts of antagonism, insurrection, and communization.
The absolute primacy Negri accorded to struggles gave a positive content to the refusal of labor. Behind shopfloor sabotage and metropolitan subversion there was a proletarian form of labor at pains to materialize. This idea would form the basis of Negri’s ontology throughout the following decades. “Self-valorization” was one of its first names, “multitude” one of its last.
This pervasive worker’s antagonism throughout the social sphere was evident during the seventies, but once Italy’s long May came to a close, such a primacy of struggle seemed less and less defensible. How could Negri’s “positive content,” implicit in proletarian refusal of labor, express itself when such refusal of labor was no longer evident? If Negri’s method was to sustain a social, non-factory based, primacy of struggles, then it had to become a fully fledged theory of contemporary social life. Post-operaismo came to see every little twitch of the social body as “self-valorization” and as a possibility of “resistance”, without ever developing a thorough criteria by which to assess such a claim. The end result was that “resistance” was everywhere and nowhere at once.
Negri’s critics often accused him of not being dialectical enough. Negri’s enthusiasts — and Negri himself — would gladly agree. But if he can be accused of anything, it is perhaps of being too dialectical. If Tronti was, in his own words, first a politician and only then a “thinker”, Negri was — proudly — first a militant and only then a philosopher. Negri wrote for the “movement,” aware that addressing that subject was, in a way, a method of creating it. There was no standpoint of reason external to the subjective movement of the working class, to the affirmation of its positive content, and hence the consistency of Negri’s conceptual work found both its ground and confirmation precisely within those struggles themselves. “Self-valorization” and “multitude” were valid concepts precisely inasmuch as Negri’s idea of what constitutes a movement came to recognize itself within them, and within the political processes presupposed in them. In other words, the “multitude” existed only when it believed itself to exist. It belongs to the nature of such a “movement” to presuppose its own material and historical conditions (state and capital). Its triumphant antagonism existed only inasmuch as it shared a playing field with the opposing team, but this meant that every goal scored meant an acceptance of the rules of the game. This is why Negri was never an anarchist, nor did he ever claim to be one, even though his writings were always coloured by a vague libertarianism. For him, concepts and ideas only existed when they became movement, and a movement only existed when it articulated with the concrete institutional realities of its period — be it the Italian Communist Party or the European Union, be it Fiat’s Mirafiori or neo-liberal entrepreneurship.
However, as insurrections came and went, the internal coherence of any instance of “movement” seemed to dissipate even further. Negriism functioned on the presumption that the dynamic core of contemporary politics lay in the oscillation between constituent and constituted forms. But today power affirms itself through its capacity to destroy, dismantle, and annihilate its own social body, through austerity, ostracism, or outright war. The integrity of any positive revolutionary substance could only hold as long as that constitutional dialectic held too, even if Negri’s permanent “constituent power” aimed to stop it in its tracks. Negri’s unwavering optimism slowly started to taste ever more bitter, as if the only remaining strategy was to fiercely repeat “we are winning” in the face of obvious defeat. Autonomia, for Negri, existed as a way of unshackling the PCI from its orthodoxy and complacency, not as a way of destroying it. But the EU is not the PCI, and bitcoin is not Mirafiori.
Negri was right in a way that few others ever were, namely in his insistence that communism is always already present. His life was, in his own words, a “communist life.” To claim that a life is communist is not to claim that communism was realized in the ethical integrity of one’s actions and affects, or to believe any single personal history can stand for the meaning of communism. It means, rather, that one has chosen to live within the question of communism, within its singular and collective joys and trials. Negri’s death, along with Tronti’s and others, poses a question of continuity, especially for those who, in one way or another, were raised within militant traditions indebted to these towering figures. In a world which allows for little hope, their legendary tenacity is at once inspiring and burdensome. Perhaps the only honest way to remain faithful to it is, in our own terms, to once again perform the rupture inherent in their thought. It is precisely because we can cherish Negri’s optimism that we can also suggest that, right now, to start over again might have come to mean going back — going back to the question of what a communist life is.
(Ill Will – 1° gennaio 2024)