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“Mario dacci la linea” (intervista a Rita di Leo)

A volte dice: questo non lo scrivere. A volte però insiste: questo ci terrei che lo dicessi. È ondivaga Rita di Leo, la donna che abbracciò l’operaismo come forma suprema di emancipazione: «Furono anni interessanti che naufragarono in una disfatta. Eravamo io, Mario, Alberto e Umberto. Venivano da me. Giuseppina cucinava, e che piatti faceva… Discutevamo, anche con accanimento. Ma se oggi mi guardo indietro loro, i miei amici, non ci sono più. E non c’è più neanche Giuseppina. Come vedi sono sola. Abbracciata alla mia memoria». Ho letto con curiosità il nuovo libro di Rita di Leo: L’età dei torbidi (edito da DeriveApprodi). L’età in cui tutto si confonde e alla fine c’è un solo vincitore.

C’è ancora la lotta di classe su cui tu hai scritto, sperato, partecipato?

«Morta e sepolta, almeno quella alla quale noi avevamo dato il nostro appoggio».

Dici noi, a chi pensi?

«Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Umberto Coldagelli, io. E poi si aggiunsero Toni Negri, Massimo Cacciari e altri ovviamente. Tutto ebbe inizio con Raniero Panzieri. Ma non vorrai fare la storia dell’operaismo».

Vorrei capire il tuo punto di vista di donna allora molto giovane e impegnata.

«Ti dico subito che non sono mai stata iscritta al partito comunista. Ma a 16 anni percepivo acutamente le ingiustizie sociali. Forse in questo agevolata dal sentimento della famiglia».

Che famiglia era la tua?

«Decisamente borghese. Un padre avvocato, una madre pedagogista. Due fratelli, uno dei quali era Fernando di Leo, regista cinematografico».

Un grande del B movie, almeno è quello che più volte ha dichiarato Quentin Tarantino.

«Ha girato parecchi noir di successo. Gli piaceva il genere. Pensa che il primo film chiamava in causa la Chiesa. Si beccò una denuncia da Giulio Andreotti. Fu Raniero Panzieri a suggerirmi un buon avvocato per mio fratello. Che alla fine riuscì a farlo scagionare».

Tu come avevi conosciuto Panzieri?

«Fu Carlo Levi a segnalarmi a lui. Carlo era amico di un mio cugino, È così che lo conobbi. Quanto a Panzieri lavorava da poco all’Einaudi. Portai un mio libro sui braccianti nella speranza che fosse pubblicato. Panzieri lo lesse e gli piacque. Italo Calvino lo trovò poco adatto. Giulio Einaudi si mostrò tiepido. Alla fine fu Renato Solmi, amico di Raniero, ad appoggiarlo e a convincere Einaudi».

Che anno era?

«Il libro uscì nel 1961, i miei primi incontri in casa editrice risalgono al 1959. Il libro parlava della lotta di classe nelle campagne pugliesi».

Ma tu, giovanissima come finisti a occuparti, di un simile argomento?

«Avevo 18anni quando dissi a mia madre, che voleva mi iscrivessi a Filosofia, che prima avrei voluto fare un’esperienza nel sociale. Mi chiedi perché i braccianti. Beh avevo vivo il ricordo di quando bambina seguivo mia madre nelle campagne del foggiano. Pochi sanno che allora, parlo del Dopoguerra, gli agrari bruciavano le scuole rurali. Temevano che i figli dei contadini imparassero a leggere e a scrivere, Mia madre si interessò degli effetti di quel trauma. Quanto a me decisi di occuparmi della condizione del mondo contadino».

Ti trasferisti in Puglia?

«Precisamente a Cerignola. Li conobbi un certo Giuseppe Angione, bracciante comunista. Amico di Di Vittorio, devo a lui gran parte del lavoro di ricerca svolto».

Dai braccianti sei poi passata agli operai.

«Qui torna la figura di Panzieri. In quel periodo mi ero trasferita a Torino. Il mio interesse stava nel capire l’impatto della fabbrica sull’immigrazione dal sud. In quel periodo a Panzieri venne l’idea di fare una rivista che raccontasse sul piano pratico-teorico cosa fosse la vita della fabbrica e tutto quello che le ruotava attorno».

Panzieri come si collocava politicamente?

«Era decisamente anticomunista e soprattutto antisovietico. Veniva dal socialismo morandiano. Ma questo non gli impedì di dialogare e confrontarsi con personaggi del Pci».

Quando decise di dar vita “Quadernirossi”?

«Ricordo che il primo incontro avvenne a Roma nel 1960. Ci demmo appuntamento a Piazza Esedra, dove c’è una galleria. Nascosti dietro una colonna c’erano tre giovanotti timidissimi: Tronti, Coldagelli e Asor Rosa. Raniero arrivò, come al solito, più tardi. Da allora per cinquant’anni non ci siamo più persi».

Discutevate o cosa?

«Negli anni di Quaderni Rossi e poi di Classe operaia, l’appuntamento era il sabato sotto il balcone di Piazza Venezia. La sera si andava a mangiare in posti modestissimi. Chiacchieravamo di tutto. Poi a un certo punto cominciava la discussione politica. La frase per iniziare era: “Mario dacci la linea”».

Com’era Tronti?

«Politicamente è sempre stato un comunista togliattiano».

E privatamente?

«A volte lo sentivo un po’a disagio. Veniva da una famiglia comunista. In casa avevano il ritratto di Stalin. Per mantenersi agli studi aveva fatto anche lo scaricatore ai mercati generali, come suo fratello del resto».

Quando dici comunista togliattiano che intendi?

«Intendo realismo, una forte istanza della politica che nasce con Machiavelli: realismo ma al tempo stesso visione etica. A differenza degli altri compagni Mario non si sarebbe mai staccato in modo definitivo dal Pci. C’era un legame sentimentale».

Cioè?

«Il padre carrettiere lo portava da piccolo nella sezione del Pci, all’Ostiense. Quartiere popolare. È lì che si è formato. Non puoi immaginare la disperazione quando il Pci gli revocò la tessera. Poi, l’anno dopo, la federazione romana gliela fece riavere. Questo era Mario: un uomo del popolo e un intellettuale straordinario».

So che si laureò con Ugo Spirito.

«Sì e devo dire che Spirito gli fece avere un posto all’Enciclopedia Italiana. Questo prima dell’insegnamento all’università di Siena, dove però fu sempre tenuto ai margini».

A differenza di Asor Rosa.

«Alberto aveva un grande prestigio universitario. Sia lui che Mario hanno segnato una stagione culturale. Nel 1965 Alberto pubblica Scrittori e popolo, l’anno dopo Mario esce con Operai e capitale. Beh, restano due libri indimenticabili».

Indimenticabile come la classe operaia?

«I libri che ti ho citato testimoniano del nostro impegno, verso e con la classe operaia. Pensavamo di cambiare il mondo».

Ma ci credevate davvero?

«A quell’epoca non ce lo chiedevamo. Oggi una domanda del genere mi suscita nostalgia. Però quell’infatuazione di poter incidere sui rapporti di forza della sinistra è durata tre o quattro anni».

Cosa vi ha fatto ricredere?

«Pensavamo che il contatto diretto con gli operai mettesse in moto una nuova consapevolezza. In realtà non eravamo operai, né sindacalisti, né politici di professione. Ma solo degli intellettuali contro. E quando arrivò il Sessantotto ci sentimmo fuori posto».

Perché? Dopotutto eravate stati gli interpreti di un cambiamento radicale.

«La nostra elaborazione teorico-politica prima con Quaderni Rossi poi con Classe Operaia aveva poco a che fare con le istanze che si pronunciarono dopo il Sessantotto. La cosa curiosa è che quelle lotte di massa che avevamo sognato si stavano realizzando, diventavano una realtà. Solo che era una realtà nata senza di noi».

Eravate, come tu dici, solo degli intellettuali contro.

«Non era una definizione negativa, ma una presa d’atto di chi fossimo veramente. E proprio riflettendo sulla natura del “contro” che nacque in Asor Rosa, Cacciari e Negri l’idea della rivista Contropiano».

Tu non partecipasti?

«All’inizio mi sembrava un addio troppo drastico a quello che eravamo stati. Mi sbagliavo. Contropiano svecchiò le culture del tempo svolgendo un ruolo interessante sul piano non tanto del marxismo quanto su quello che c’era oltre. Dieci anni dopo nacque Laboratorio politico, la nostra rivista di maggior successo. Si era già nei terribili anni Ottanta. La nostra sfera di cristallo nella quale leggevamo il futuro andò in frantumi e con essa il principio di speranza. Pensavamo di cambiare il mondo, il mondo ci ha cambiati».

Cosa hai fatto in seguito?

«Ho insegnato all’Orientale di Napoli, dove ho diretto il dipartimento di scienze sociali e poi alla Sapienza di Roma. Mi sono occupata prevalentemente dei Paesi dell’Est Europa, e in particolare dell’Unione Sovietica e della Russia. La mia nonna materna era un’ebrea di origine lituana».

Sei stata sposata con Aris Accornero.

«Aris, scomparso sei anni fa, è stato un importante sociologo del lavoro. Fu Carlo Levi a dirmi che dovevo conoscere quest’uomo che era stato operaio alla Riv di Torino, era stato licenziato per la sua attività sindacale ed era poi diventato giornalista all’Unità e infine professore universitario, Aris fu grande amico di Panzieri ed era quello che rivedeva tutti gli articoli che pubblicavamo su Quaderni Rossi e poi su Classe operaia».

Carlo Levi è tornato spesso in questa conversazione. Che cosa pensi di lui?

«Gli sono grata per tutto quello che ha fatto. Disinteressatamente. A casa sua ho conosciuto Alberto Moravia e Adriano Olivetti. Venivo presentata come la ragazzina che si era innamorata dei braccianti. Carlo fu una persona generosa, con le amarezze del Sud. Mi si stringeva il cuore, negli ultimi tempi, quando ormai cieco si ostinava a dipingere. Anche quello mi sembrava un gesto di fedeltà alla vita».

Leggendo il tuo ultimo libro, “L’età dei torbidi”, mi sembra chiaro il disincanto rispetto agli anni giovanili.

«Ho la percezione di sentirmi sempre meno libera. Dirai: ma alla tua età a che ti serve la libertà. È vero, apparentemente faccio le stesse cose. Ma se penso a quello che volevamo e poi vedere cosa siamo diventati mi viene un senso di nausea e di impotenza».

Quando usi l’aggettivo “torbido” a cosa pensi?

«Torbida è l’acqua che si sporca, che diventa opaca e non ti fa vedere il fondo. Torbidi sono oggi i canali social che scatenano istinti primordiali più prepotentemente che all’epoca delle caverne. Avverti tutte le passioni tristi che si scatenano, Torbida è la relazione tra l’uomo del denaro e quello della politica. Il primo ha preso il sopravvento sul secondo».

Chi è l’uomo del denaro?

«È colui che dall’impresa privata del singolo pioniere è passato, in un paio di secoli, a officiare nella cattedrale finanziaria. Nonostante sia stato studiato è ancora un uomo in ombra».

“Cattedrale” fa pensare a un luogo religioso.

«In un certo senso lo è. Lì dentro si predica la fede nel consumo. La teologia del consumo ha creato i nuovi credenti. E sembra molto più efficace delle religioni ultraterrene. Questo ha reso gli uomini del denaro sovrani senza avversari».

Quando è nato il fenomeno?

«In America già nei primi del Novecento, quando fu completata la rete ferroviaria che collegava i due estremi del paese creando un mercato interno di proporzioni gigantesche. In Europa, si registra tra le due guerre, esplode agli inizi degli anni Cinquanta. Ma la spinta decisiva arriva dalla Cina con l’invasione dei suoi beni a basso costo. A sostegno delle società dello scambio un ruolo oggi fondamentale è svolto dalle tecnologie informatiche».

Alludi al capitalismo cognitivo?

«All’alleanza tra denaro e scienza informatica. Il potere della politica, della sua capacità di decisione, è progressivamente soppiantato dal potere degli algoritmi. Siamo così entrati in una nuova etica: il diritto al consumo ha sostituito il diritto all’eguaglianza».

Te lo aspettavi?

«No, sinceramente. Ne avrei discusso volentieri coi i miei amici, Ma non ci sono più».

“Mario dacci la linea”.

«Sarebbe bello. L’ultima mail di Mario mi giunse alle otto del mattino. Alle dieci era morto. Nel messaggio diceva: quando vieni a trovarmi? Era estate. Il 7 di agosto. Se ne stava a Ferentillo. Risposi: Mario arrivo quando finisce il gran caldo. Non ho fatto in tempo».

(intervista di Antonio Gnoli pubblicata su Robinson-la Repubblica del 2 giugno 2024)