Una “storia sacra” contro l’eterno presente
Vorrei offrire alcune osservazioni su un registro particolare della riflessione di Mario in questi ultimi due o tre decenni, come l’ho potuta seguire e talvolta discutere con lui, da una distanza di generazione e inevitabilmente di devozione nei suoi confronti. Mi riferisco alle sue incursioni sul terreno del “religioso”, poi sviluppatesi in appropriazioni e da ultimo, forse, identificazioni.
C’è un momento, mi sembra, che segna simbolicamente l’avvio di un suo esercizio pubblico della parola in questa dimensione; dico simbolicamente, perché a livello cronologico c’è sicuramente un retroterra, in parte anche noto; ma perché simboliche sono le date, tra 1991 e 1993, di questo suo impegno. In quegli anni-zero della diversa epoca, aveva inizio la sua pratica degli “itinerari e incontri” all’eremo di Monte Giove, ripetuta per quindici anni almeno fino al 2007, a volte dietro diretta sua ispirazione e organizzazione, come molti sanno.
La prima osservazione verte appunto sulle date, e sottolinea come tempestivamente, nel cambio d’epoca, Mario si sia messo al lavoro per ricostruire un fronte moralmente antagonista – dico moralmente perché “politicamente” vigono le compatibilità che vigono, come si sa, per lo meno ai suoi occhi. In questa prospettiva “moralmente” (esistenzialmente) alternativa, Mario ha cercato subito interlocutori, in direzioni anche diverse (nel pensiero femminile ad esempio), ma certo con una interlocuzione protratta e mai intermessa con le grandi tradizioni religiose, e in particolare, per quanto ne so, con quella cristiana (e dentro a quella cristiana, con la tradizione monastica). So che è una banalità dirlo, ma non è inutile ripetere, almeno in questa occasione, che queste sue aperture di dialogo, o incursioni in territori “non giurisdizionali”, avevano quest’unica mira, complessivamente in controtendenza: cioè riaprire la possibilità, anche remota, di un trascendimento dell’esistente. Non quindi un qualche ripiegamento, magari intimistico, al contrario un rilancio, certo con altri tempi (all’indietro e in avanti) ed eventualmente con altri compagni di strada. Una riaccumulazione primitiva di energia rivoluzionaria, così la descriverei.
So che in questo Mario ha anche disorientato, e per esempio anche me. Ma mi chiedo, quando mai Mario Tronti non sia stato disorientante. Una qualità ben singolare per un “maestro” quale lui indubbiamente è stato; ma una qualità che si deve credo a un tratto particolare, della personalità se vogliamo, certamente del suo profilo intellettuale. Cioè, la straordinaria libertà sua, anzitutto nei confronti di sé stesso, con niente di proprio da difendere, nessuna fedeltà, nessuna ortodossia a cui sacrificare. È quel tipo di libertà che si deve a un radicamento profondo, inconcusso: il radicamento nella sua “parte”, come si sa, reale o virtuale, e nella correlativa esigenza di rovesciamento dell’ordine dato. Altrettanta libertà Mario ha esercitato nei confronti dell’interlocutore, delle tradizioni, degli autori, opere e giorni in cui la sua ricerca si è imbattuta. Nessun interesse per “la” verità, per l’interpretazione corretta; nessuna concessione alle dottrine più stabilite, nessun timore delle eresie più anatematizzate. Di nuovo: tutto questo si sa già, ma, per il nostro tema, è di rilevanza delicata.
Il cristianesimo di Mario, per come emerge dai suoi prelievi dal Vangelo, dai Profeti talvolta, e dalla tradizione successiva, è un cristianesimo eminentemente divisivo, dissociativo. È l’inimicizia al mondo, il tratto pertinente e permanente. In questo, esso custodisce un potenziale inesauribile di negazione, del mondo, nel mondo. Credo che il fascino dei monasteri, certi monasteri almeno, sorgesse di qui, dal loro imporsi monumentale come la versione in pietra della perseveranza – per scomodare un termine chiave del vocabolario monastico. Tenere, perdurare in questa “apotassi”, questa secessione dal mondo, come provocazione e prefigurazione del suo trascendimento, poteva ben essere un punto all’ordine del giorno, per quegli anni, che sono poi ancora questi nostri. Si sa che egli ha attinto anche alla sapienza monastica esempi e parole per quella ascesi personale, in cui la pietra era la pietra del “castello interiore”, il fortilizio del suo – ricordate? – “voi, qui, non mi prenderete”. Comunque non c’era alcun “ritiro dal mondo” in questa sua ascesi, c’era semmai una precisa lotta; essa nasceva da una disperazione antropologica, il senso o il timore dell’avvenuta naturalizzazione dell’uomo borghese.
Mario ha poi svolto, in alcuni luoghi, anche un parallelo tra movimento operaio e movimento monastico, per mostrare come una forza antagonistica organizzata e per ciò stesso autocontrollata, possa svolgere un ruolo di civilizzazione, evitando, meglio: “convertendo” la barbarie della forza bruta da un lato, e l’ascesa agli estremi della dissociazione dall’altro. È il “paradigma catechontico”, o una sua variante, classicamente applicato alla Chiesa tutta, a un livello più ampio, cioè alla stessa forma-Chiesa come forma politica, o appunto, suo paradigma. È noto che Mario ha visitato e ripercorso questo prestigioso luogo teorico, in particolare nella sua riflessione sull’esperienza sovietica; non mi sembra necessario soffermarmi su questo punto, se non per sottolineare che, come suo solito, egli adotta quel teorema per rovesciarlo. Il centro di gravità non è per lui il bonum ordinis, sì piuttosto il disordine, il disordine messianico, che certo può essere questione di frenare, in date circostanze, ma prima di preservarlo attivo, e ancora prima, di suscitarlo. C’era questo, c’è questo articolo 1 a capo della sua rivendicata “teologia politica negativa”.
A proposito di questo fattore disordinante, Mario ha convocato una tradizione più ampia e più lunga di quella del movimento operaio, una storia millenaria di insubordinazioni, rivolte, fiammate escatologiche, appiccatesi nell’alveo del cristianesimo storico, o ai suoi margini; lo ha fatto, credo, sulla scia di Bloch soprattutto, ma senza particolare interesse per le formulazioni dottrinali o gli svolgimenti storici concreti – interessandogli piuttosto, anzitutto, un dato “formale”, e cioè quella intensità della dissociazione, la dissociazione cristiana in questo caso, capace di crescita e di ascesa agli estremi. Diciamo, quella “intensità messianica” che percorre, per lo più sottotraccia, la storia dell’Occidente cristiano, o ebraico-cristiano, quale suo intrinseco fattore di “disordine”, e che Mario ha evocato o inteso mobilitare come risorsa direttamente politica nella prospettiva dell’oltrepassamento di tutto ciò che è.
Questo ha fatto problema, indubbiamente. Io, noi, per quel che conta – e cioè come schegge di una cultura entro cui ci si era formati tra ’70 e ’80, cultura minoritaria ma comunque ricevuta – ragionavamo in altri termini. Ragionavamo entro uno schema Weber-Barth, l’immanenza dell’immanente e la trascendenza del trascendente, il disincanto del mondo e il Totalmente Altro da esso. Non che le due dimensioni non lavorassero l’una sull’altra, e su questo ci si potrebbe anche diffondere – ma una mediazione non era pensabile, non senza lo snaturamento di entrambi i livelli, e tanto meno una qualche identificazione. A Mario, questa disgiunzione e opposizione di ambiti, poteva anche essere familiare, come credo, però non lo interessava, sospetto anzi che gli fosse ingrata, perché conteneva implicitamente una secolarizzazione del politico, un certo grado di neutralizzazione dei conflitti, e da ultimo una spoliticizzazione. A lui interessava l’esatto contrario, una “riteologizzazione dei concetti politici”, come si è espresso ormai tantissimi anni fa, ancora al di qua del punto di catastrofe. Serviva a lui un rilancio di quella “analogia strutturale” tra concetti che sta all’origine del politico moderno, tale che potesse permettere e facilitare il deflusso dall’uno all’altro bacino di un certo quantitativo di tensione largamente umana verso Altro; e non, ripeto, perché fosse messa sotto controllo, ma convogliata sul fronte della trasformazione radicale. Si potrebbe dire forse così: il distinguersi e perfino opporsi degli ambiti poteva essere la condizione ordinaria; in situazione di emergenza, in stato di necessità, quella grammatica doveva abbandonarsi, rovesciarsi, e le due dimensioni convergere, per confluire in uno stesso vettore di forza, solo così forza davvero dirompente.
Questo convergere, questo pensabile ma impredicibile convergere, è ciò che Mario ha chiamato il “sacro” – così anche nelle sue ultimissime pagine, anzi ultimissime righe – credo pensando a qualcosa come una sorta di teofania (la parola non è sua, però), un evento che irradia da sé poi il campo magnetico di un’epoca intera; l’apparire di quel trascendimento che è sempre più-che-umano nell’uomo, e infatti accenna a una umanità diversa, a un orizzonte più alto di libertà, quella libertà di cui lui ci ha parlato così spesso, ma di cui mi sembra che non sappiamo nulla. Ci sarebbe davvero in tal senso qualcosa come una “storia sacra”, il darsi discontinuo – nella storia ma contro la storia – di queste irruzioni del trascendente, o eruzioni messianiche, tra l’una e l’altra delle cui sommità si muove, a salti, l’itinerario della liberazione. Mario lo ha tratteggiato da qualche parte, “con l’alterna chiave” dell’analogia, come si è espresso: analogia non “strutturale” in questo caso, cioè tra concettualità, ma appunto storica, tra eventi, accennando a una sorta di tipologia: con l’annuncio evangelico del Regno che adombra il sorgere del soggetto moderno, e quest’ultimo che si adempie nella Rivoluzione (la Rivoluzione, la sola).
L’analogia si regge e si attiva sulla base di somiglianze, ma libera anche il gioco delle dissomiglianze, e in questo campo di gioco gli analogati mantengono o recuperano la loro identità e specificità, senza perdersi né confondersi. È possibile pensare che Mario abbia usato il dispositivo analogico anche a protezione del suo discorso e a protezione dei suoi lettori, senza enfatizzare il carattere strumentale e arbitrario (“di parte”) delle sue appropriazioni, ma sempre lasciando intendere che di questo poteva trattarsi, di espropri legittimati da ragioni superiori. Su un punto credo che egli sia stato invece univoco, nel procedere dei suoi scritti e specie negli ultimi – sulla qualità “religiosa”, cioè, di quel tipo di impegno individuale e collettivo che aspira a negare tutto quello che “non si può accettare” e a ribaltarne alle radici l’ordine.
(testo letto da Fabio Milana in data 8 novembre 2023 a Roma, in occasione della giornata in memoria di Mario Tronti)