azione parallela

Intervista a Massimo Cacciari

“Caro Mario, le stelle di quel pensiero critico che ti ha sempre ispirato, non brillano più in questa povera Italia annichilita da un pensiero unico che ha fatto strame di ogni criticità. Siamo stati sconfitti, ma non per questo ti sei, ci siamo arresi o peggio ancora passati al nemico”. Così Massimo Cacciari aveva salutato l’amico di decenni. In questa intervista si è cercato di ricostruire per cenni un lungo e articolato itinerario teorico-politico che è anche la storia di un’“amicizia stellare”, a distanza ma prossimi, senza perdersi mai.

Quando vi siete conosciuti con Tronti?

Ci conoscemmo all’incirca con l’inizio dell’avventura di classe operaia. Il primo del gruppo che io conobbi fu Toni Negri, stava a Venezia ed era oltretutto fidanzato con la sorella del mio migliore amico. E attraverso Toni ho poi conosciuto Mario, Asor, Coldagelli e, insomma, tutti quanti.

Mario era iscritto al PCI, si era formato in quel contesto di sezione di partito.

Ma questo non appariva. Toni Negri si era già separato dal partito socialista in cui aveva militato a Padova. E anche negli altri, quando li conobbi, compreso Tronti, non si avvertiva affatto questa origine. L’elemento critico nei confronti della sinistra tradizionale, del partito comunista, era radicale, fortissimo. La mia simpatia per questi personaggi derivava anche da questo.

Operai e capitale, l’opera di Tronti, si poneva in forte contrapposizione con tutta la tradizione gramsciano-togliattiana del PCI.

Questo era comprensibile: perché, da un lato, c’era stata la rottura del ’56 che aveva coinvolto tutti e, dall’altro, vi era una certa lettura di Marx in chiave anti-gramsciana. Se, infatti, si devono trovare delle ascendenze nel pensiero italiano in Tronti non c’era Gramsci, semmai Gentile attraverso Ugo Spirito. Si tratta di una prospettiva teorico-politica-filosofica che fin dagli inizi non ha nulla a che fare con il togliattismo e l’ortodossia comunista italiana. Era proprio questo che colpiva i giovani come me, che, lontani dalla tradizione italiana, nascevano già incautamente rivolti alle correnti del pensiero europeo. Peraltro, a ben vedere, l’unico di questi che aveva veramente questa dimensione europea era Toni Negri.

Ciò che colpisce in Operai e capitale è anche lo stile di scrittura, da pensatore letterato, su cui molto si è detto.

L’ha sottolineato bene Asor Rosa. Certo è una scrittura, quella di Mario, molto letteraria: ci sono ascendenze machiavelliche, leopardiane. C’è questo umanesimo che ho definito tragico nella sua scrittura. Uno stile completamente diverso rispetto a quello crociano di certa letteratura comunista italiana.

Su Rinascita, la rivista del PCI, che recensì negativamente Operai e capitale, si parlò di reminiscenze vociane, di stile alla Prezzolini.

Sì. Si potrebbe dire anche così: lo stile di quei giovani d’allora in polemica con l’idealismo crociano.

Proprio nel vedere prima la classe e poi il capitale – che è una delle peculiarità dell’operaismo – mi sembra di capire che secondo te si possano rinvenire le tracce del pensiero di Gentile, ovvero l’idea dello spirito che è azione e pensiero e determina il reale.

Certo. È un attualismo: cioè il primato dello spirito che supera ogni naturalismo e obiettivismo. Il primato dell’atto dello spirito che sussume in sé ogni esteriorità.

Questa prospettiva venne presto identificata e criticata. Tanto che uno dei primi compagni di avventura di Tronti, Raniero Panzieri, disse che dalle tesi di Mario si ricava in un’ultima analisi l’idea il capitalismo viva solo per autosuggestione.

No. Vive per la stessa opposizione del soggetto rivoluzionario, che al suo interno comprende il capitalismo, i suoi salti, le sue trasformazioni, le sue discontinuità. Quindi l’anima del capitalismo non è niente di naturalistico e oggettivo, ma è appunto la stessa lotta, lo stesso atto rivoluzionario che in ogni istante è tale, è in atto all’interno del tutto capitalistico. È uno schema di filosofia della prassi, che per Gentile era la filosofia di Marx.

Accanto a questo vi è però pure l’apporto del pensiero negativo. Ad esempio nella “Strategia del rifiuto” del 1965 (uno dei saggi che compongono Operai e capitale), Tronti scriveva: “L’Uomo, la Ragione, la Storia, queste mostruose divinità vanno combattute e distrutte, come fossero il potere del padrone. Non è vero che il capitale ha abbandonato questi suoi antichi dei. Ne ha solo fatto la religione del movimento operaio: è così che continuano a governare attivamente il mondo degli uomini. Mentre la negazione di essi, che tiene in sé un pericolo mortale per il capitale, viene da questo direttamente gestita: ridotta a cultura e quindi fatta appunto innocua e servizievole. Così l’antiumanesimo, l’irrazionalismo, l’antistoricismo, da armi pratiche che potevano essere nelle mani della lotta operaia, diventano prodotti culturali in mano alle ideologie capitalistiche”.

Sì. Qui c’è il pensiero della crisi, che, in termini peraltro ancora elementari, venne affrontato nel mio saggio pubblicato su Contropiano nel 1969, Sulla genesi del pensiero negativo, e poi esposto, in termini molto diversi rispetto a questa bella pagina ma molto letteraria di Tronti, in Krisis del 1976, dove spiegavo la totale indisponibilità del pensiero negativo alla lettura che ne fa Mario, perché il pensiero negativo è un pensiero alla fine rifondativo e nulla ha a che fare con “irrazionalismi”. In ogni caso questi rimandi fanno intendere come, oltre al filone gentiliano, vi fosse un formidabile apporto da parte del pensiero negativo, cioè del pensiero della crisi. E il vizio mortale del movimento operaio è stato proprio quello di non aver mai fatto i conti nella storia con questa crisi dei fondamenti del pensiero europeo tra ‘800 e ‘900. Nel 1976 lo scandalo del mio articoletto per la morte di Heidegger pubblicato incautamente da Rinascita … . Vorrei far presente che nel 1964 il sottoscritto fondò una rivista che si intitolava Angelus Novus, dunque Benjamin che allora era totalmente assente nella discussione interna al gruppo. Sono tutti elementi che emergono negli anni ’60 e ’70 e che poi Mario riprende alla grande in tutti i suoi scritti successivi fino agli esiti propriamente escatologici che il suo pensiero assume nell’ultimo periodo.

Credo si possa dire che questo intreccio tra marxismo e pensiero della crisi, assunto in questo modo così consapevole, rappresenti un unicum senza precedenti.

E se non lo si coglie, se non ci si rende conto di questi rapporti, il discorso sull’operaismo, sulla cosiddetta Italian Theory, che tanto interesse ha suscitato, risulta impoverito, ischeletrito. Anche a livello internazionale oggi tutta la curiosità per l’operaismo e l’Italian Theory è inadeguata rispetto a questa complessità delle idee che si coltivavano, e alla fine non diventa altro che una riscoperta di Gramsci.

La fase successiva, in questo percorso che stiamo ricostruendo, è quella dell’autonomia del politico: lo stato diventa un campo di battaglia, non più un nemico da abbattere. Tronti sostanzialmente dice: la classe non riesce ad arrivare al potere tutta dentro questo piano di immanenza della teoria operaista, quindi studiamo il politico, la politica come sfera autonoma.

Però attenzione: questo significa che l’azione politica deve sempre contestualizzarsi ed essere adeguata alle situazioni che si incontrano. Non può essere mai volontarismo. L’autonomia della politica non sbocca mai in posizioni da Links-kommunismus/Seconda Internazionale. Allora lì l’altro grande autore che riemerge soprattutto nel corso degli anni ’70 e ’80 è Max Weber e questo significa fare i conti con la professione politica. Autonomia del politico vuol dire che occorrono i professionisti della politica. Secondo me Mario non ha mai smesso di essere un leninista sotto questo aspetto. L’autonomia della politica va intesa in questo senso, specifico, preciso: non l’autonomia astratta, ma un’etica della responsabilità, cioè, in corrispondenza e rispondendo a una situazione concreta, vi è un’arte della politica che riesce a cogliere in ogni momento dello sviluppo il kairos, l’occasione, la possibilità della rottura della continuità, ma sempre attenta alla situazione, ai dati concreti della situazione, cioè nessuna astrazione, nessun volontarismo. Questa dimensione specifica del politico voleva dire guardare alle istituzioni, all’organizzazione dello stato, alle sue contraddizioni, anche alla dislocazione dei suoi centri di potere. Questo fu Laboratorio politico: una considerazione scientifica – sempre alla luce delle categorie precedenti, cioè del primato dell’atto – di come si disponevano i rapporti di potere, quindi i rapporti politici all’interno del sistema sociale capitalistico di produzione. Lo sfondo era sempre marxiano, tuttavia con questa attenzione alla dimensione politica che non c’è in Marx. O meglio, quando Marx fa lo storico o il giornalista lì c’è l’attenzione straordinariamente intelligente alla politica, alla dimensione politica nella sua autonomia, non certo nei Gundrisse o nel Capitale. Poi naturalmente come non c’è nessun economicismo nell’analisi dei rapporti di produzione, non c’è neppure nessuna scienza della politica nel senso che tu possa vedere la politica se non come un campo di battaglia e di contraddizioni che non può trovare in sé, secondo i suoi stessi principi, nessuna conciliazione. Questa è l’accusa che Tronti muove agli infelici eredi della tradizione comunista ma anche democristiana sotto certi aspetti: l’aver declinato la politica come uno spazio di conciliazioni, l’aver dimenticato che la politica è conflitto. Autonomia non significa astrarsi dal conflitto, ma vedere il conflitto nei suoi propri elementi, nella sua autonomia.

Esaurita la fase dell’autonomia del politico subentra una disillusione radicale con la presa d’atto della sconfitta epocale del movimento operaio. Il movimento operaio non è stato sconfitto dal capitalismo, ma dalla democrazia, dice Tronti.

È stato sconfitto appunto dall’intendere lo spazio politico come spazio di mediazione permanente, di arte della conciliazione. La democrazia è stata intesa e vissuta in questo modo. Il movimento operaio operando nel senso della fine del conflitto ha finito per tagliare il ramo su cui era seduto. Perché il movimento operaio – malgrado tutto questo potesse contraddire elementi della sua teoria, tradizione e cultura – si reggeva nei fatti, almeno fino agli anni ’80, proprio in quanto rappresentante di un elemento intrinsecamente conflittuale nel sistema democratico. Quando il sistema democratico viene vissuto come rimozione del conflitto, il movimento operaio è finito. Dopodiché si tratta di capire che questa fine non deriva da carenze teoriche soggettive, deriva invece dalla forza, dalla prepotenza della trasformazione capitalistica, dalla globalizzazione, da tanti altri fattori oggettivi e non certo dal fatto che è crollata la teoria.

In Tronti però c’è anche una critica antropologica: l’uomo democratico che finisce per coincidere con l’uomo economico, il borghese massa, l’ultimo uomo nietzscheano

Torna Nietzsche in pieno. Negli ultimi scritti di Mario torna Nietzsche: lo Stato “gelido mostro”, l’homo democraticus, l’“ultimo uomo”. Tutti gli elementi delle grandi polemiche antidemocratiche dei pensatori più profetici della fine dell’800, da Nietzsche a Burckhardt, poi nell’ambiente della stessa “famiglia” le cose di Coldagelli su Tocqueville. Ha vinto quella democrazia, il processo si è compiuto. Dopodiché vi è un eschaton che non potrà mai essere sussunto ed esaurirsi in questi compimenti ed è qui tutta l’attenzione di Mario alla fine su tutta una serie di elementi teologici, anche propriamente religiosi. Cioè l’idea di un eschaton che non può essere ridotto alla fine della storia, la fine di questa storia di cui abbiamo parlato non può essere la fine e quindi un pensiero della fine che poi è il senso del libro Dello spirito libero, questo è: pensiero della fine.

Al termine di questo percorso che abbiamo tratteggiato, l’esito, dato dall’impossibilità di aprire una contraddizione, appare drammatico per un pensiero teorico-pratico come quello di Tronti

Mario soffriva enormemente questa situazione, invece io dico c’è tantissimo da studiare.

(Intervista di Andrea Cerutti a Massimo Cacciari del 19.3.2024)