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L’enigma democratico

Mario Tronti

La democrazia reale non è il potere dei più ma il potere di tutti, in cui, nell’omologazione di pensieri, sentimenti, gusti e comportamenti, la singolarità è concessa nel privato ma non nel pubblico.

Credo sia proprio venuto il momento di passare a una critica della democrazia. Questi momenti arrivano sempre, arrivano quando le condizioni oggettive del tema s’incontrano con le disposizioni soggettive di chi lo guarda, lo analizza. È maturato su questo terreno un percorso di pensiero, che mi pare arrivi oggi a cogliere la crisi di tutto un apparato pratico-concettuale. Perché quando diciamo democrazia diciamo questo: istituzione più teoria; costituzione e dottrina. E qui, su questi termini, si instaura un intreccio molto forte, un nodo anzi. Un nodo che non lega soltanto strutture politico-sociali e tradizioni forti di pensiero – quelle della democrazia sono sempre tradizioni di pensiero forti, anche se la deriva della pratica di democrazia indica oggi un terreno debole; ma si stringe anche all’interno delle une e delle altre, delle strutture pratiche e delle tradizioni di pensiero. Perché si stringono nella democrazia, nella sua storia, una pratica di dominio e nello stesso tempo un progetto di liberazione, che si presentano sempre insieme, compresenti. In alcuni periodi – periodi di crisi, di stato d’eccezione – queste due dimensioni configgono, in altri – come in questo di oggi che è uno stato fondamentalmente di normalità – si integrano. E queste due dimensioni, pratica di dominio e progetto di liberazione, non sono due facce, sono una faccia sola, bifronte, della democrazia. Una volta, appunto, si vede di più l’una, una volta si vede di più l’altra, a seconda di come il rapporto di forza tra l’alto e il basso della società s’instaura, si dimensiona, si costituisce. Credo che a questo punto il rapporto di forza sia talmente squilibrato da una parte – dalla parte avversa a noi – che non si vede più che una sola fronte. Questo è il motivo per cui la democrazia non è più il meglio del peggio, è l’unica cosa che c’è.

Tagliare il nodo

Se questo è il nodo, mentre nel passato abbiamo cercato di scioglierlo, adesso mi sembra sia venuto il momento di tagliarlo. E su questo, allora, si dimensiona la critica della democrazia, e assume un carattere molto radicale. La critica determinata della democrazia che qui avanzo ha un padre, l’operaismo, e una madre, l’autonomia del politico. Ed è una figlia femmina, perché il pensiero e la pratica della differenza hanno anticipato questa critica con la messa in questione dell’universalismo del demos, che è l’altra faccia del carattere neutro dell’individuo, e con quel «non credere di avere diritti» che non va più rivolto al singolo, ma al popolo. C’è nella democrazia una vocazione identitaria ostile alla declinazione di qualsiasi differenza, e a qualsiasi ordine della differenza. Sia il demos che il kratos sono entità uniche e univoche e non duali, non scisse e non scindibili. La democrazia, come è noto, presuppone una identità di sovrano e popolo: popolo sovrano, sovranità popolare, come dice la dottrina. A questa identità di sovrano e popolo si è risposto, nell’800 e poi soprattutto nel 900, con una sorta di spirito di scissione dato dalla società divisa in classi, che metteva il dito nella falsità ideologica di questa identità, anzi ne metteva in crisi proprio la struttura concettuale. In quella fase la stessa divisione dei poteri, dentro un apparato che tentava il grande passaggio dal liberalismo alla democrazia e poi alla coniugazione di liberalismo e democrazia, si è rivelata, appunto, una maschera, maschera di unità del potere in mano a una classe. E’ da qui che bisogna ripartire per seguire, genealogicamente, il percorso di compimento della democrazia, nel passaggio dal pensiero alla storia. (…) Parlo della democrazia reale, nello stesso senso in cui si è potuto parlare del socialismo reale. Il socialismo reale non indicava una realizzazione particolare del socialismo che lasciava aperta la possibilità di un altro socialismo, quello ideale, perché il socialismo si è talmente incarnato in quella realizzazione che ormai non c’è un recupero possibile dell’ordine simbolico che era evocato da questa parola; non è possibile staccarla dalla realtà che l’ha incarnata. Così mi pare si possa dire dei sistemi democratici contemporanei, che non vanno letti come la «falsa» democrazia di fronte a cui ci sarebbe o dovrebbe esserci una «vera» democrazia, ma come l’inveramento della forma ideale, o concettuale, di democrazia: anche in questo caso, è impossibile salvare questo concetto dalla sua effettiva realizzazione. E, al contrario di quanto si pensa oggi, non nel passato, non nelle sue teorie, ma in questa realizzazione la democrazia è diventata un’idea debole. Tant’è vero che «democrazia» è un sostantivo che abbisogna sempre di aggettivi qualificativi, infatti oggi si dice democrazia liberale, democrazia socialista, democrazia progressiva, perfino democrazia totalitaria. (…) La democrazia ha problemi con la libertà. Se è vero che la democrazia reale si configura come liberal-democrazia, e che questa alla fine è stata la soluzione vincente, è proprio questo binomio che lega insieme libertà e democrazia che va aggredito criticamente. Si tratta di scomporre e contrapporre i due termini – libertà vs democrazia – perché tanto la democrazia è identità quanto la libertà è differenza. Allora il problema della democrazia va affrontato da due lati: una critica decostruttiva della democrazia deve accompagnarsi a una teoria costruttiva, fondativa o rifondativa della libertà, del concetto e della pratica della libertà. (…) Mi metto nel 900, pianto i piedi in quel secolo e da lì guardo indietro e in avanti e da lì non mi muovo e non intendo muovermi. Allora su questo tema gli autori che a me tornano sono Kelsen e Schmitt, che stranamente nello stesso periodo – Kelsen nel 29 in La democrazia e Schmitt nel 28 con La dottrina della costituzione – sebbene divisi su tutto si uniscono in fondo nella critica della democrazia, o meglio nel disvelamento dell’enigma democratico. Kelsen dice: «La discordanza tra la volontà dell’individuo – punto di partenza dell’esigenza di libertà – e l’ordine statale, che si presenta all’individuo come una volontà estranea, è inevitabile. La protesta contro il dominio esercitato da uno che è simile a noi, porta nella coscienza politica a uno spostamento del soggetto del dominio che è inevitabile anche in regime democratico, vale a dire porta alla formazione della persona anonima dello stato. L’imperium parte da questa persona anonima, non dall’individuo come tale, da questa persona anonima dello stato. Le volontà delle singole personalità liberano una misteriosa volontà collettiva e una persona collettiva addirittura mistica».
Schmitt e Kelsen
Analoghe sono le considerazioni di Schmitt: «La democrazia è una forma di stato che corrisponde al principio di identità; è l’identità dei dominati e dei dominanti, dei governanti e dei governati, di quelli che comandano e di quelli che obbediscono. E la parola identità è utile nella definizione della democrazia perché indica la completa identità del popolo omogeneo, questo popolo esistente con se stesso in quanto unità politica senza più bisogno di nessuna rappresentanza, perché appunto si autorappresenta». È su questa autorappresentazione che la democrazia diventa un concetto ideale, perché indica, dice Schmitt, «tutto ciò che è ideale, tutto ciò che è bello, tutto ciò che è simpatico. Identificata con il liberalismo, con il socialismo, con la giustizia, l’umanità, la pace, la riconciliazione dei popoli, tra i popoli». La democrazia – diceva un’altra bella frase di Schmitt – «è uno di quei complessi pericolosi di idee in cui non si possono più distinguere i concetti». Ecco, questo è l’enigma democratico.
Il punto è quindi democrazia non come forma di governo ma come forma di stato, quella cosa che si chiamava stato democratico, che ha avuto una sua evoluzione dopo l’accoppiata novecentesca di rivoluzione operaia e di grande crisi, accoppiata decisiva per la storia seguente del capitale anche così come vive oggi a livello del mondo. Attraverso lo stato sociale c’è stato una sorta di graduale processo di estinzione dello stato, non compiuto ma in questa fase a buon punto, accelerato anche dai processi della globalizzazione. L’analisi della rete del dominio mondiale conferma questo passaggio. (…)
Una tesi che mi sento di sostenere è che il capitalismo, man mano che si sviluppa, diventa sempre più e sempre meglio società borghese. La società borghese sembra un termine datato, desueto, ma secondo me ha un ritorno di estrema attualità. Proprio nel senso in cui è partita come bürgerliche Gesellschaft, ossia come società civile e società borghese nello stesso tempo. Tutta la storia recente dell’ultimo 900, dopo gli anni 70 del movimento e del femminismo, e tutta la vicenda che ne è seguita come risposta, si può leggere nella chiave di un recupero dell’egemonia capitalistica attraverso il ritorno della figura del bourgeois. Fino a che viene a cadere la distinzione-contrapposizione fra bourgeois e citoyen, perché quest’ultimo viene recuperato in quello. È l’incontro, questo sì di carattere epocale, fra homo oeconomicus e homo democraticus. Gli spiriti capitalistici hanno proprio questo soggetto che è l’animal democraticum. C’è questa figura ormai dominante, il borghese massa, che è il vero soggetto interno al rapporto sociale. Non ci sarà una vera efficace critica della democrazia senza un grande affondo antropologico, antropologia sociale ma anche antropologia individuale, anche qui nel senso del pensiero-pratica della differenza.
Immaginario neocons
E qui bisogna dare molta importanza all’immaginario e al simbolico. Molto si gioca su questo terreno, vedi come viene giocato questo terreno, il mito che ritorna – e ritorna dagli Usa verso di noi – della società dei proprietari. Viene appunto dall’America di Bush e dei neocons, da questo interessante episodio di rivoluzione conservatrice che bisogna tenere molto sotto osservazione. Del resto, la democrazia è sempre «democrazia in America»; e gli Usa hanno sempre esportato la democrazia con la guerra. Ci si meraviglia che lo facciano adesso ma lo hanno fatto sempre, anche in Europa (…)
Al contrario di quanto si sente in giro, soprattutto nell’opinione comune progressista, nego che la fase attuale veda una centralità della guerra. Mi pare che questa enfasi odierna su pace-guerra sia del tutto fuori misura. Le guerre vivono tutte ai confini dell’impero, nelle sue faglie critiche, ma l’impero al suo interno sta vivendo la sua nuova pace, non so se sarà anch’essa dei cento anni. Ed è in questa condizione di pace interna e guerra esterna che la democrazia non solo vince ma stravince. Per capire la sua potenza bisogna definire la sua base di massa. La democrazia di oggi non è il potere dei più ma è il potere di tutti. È il kratos del demos, nel senso che è il potere di tutti su ognuno. Perché è il processo appunto di omologazione, di massificazione dei pensieri, dei sentimenti, dei gusti, dei comportamenti, che si esprime in quella potenza politica che è il senso comune. Il senso comune, quando diventa di massa e s’incontra col buon senso e costruisce quest’ordine simbolico democratico, invera un po’ quello che diceva Marx quando sosteneva che la teoria diventa una forza materiale quando s’impadronisce della masse: anche il senso comune diventa forza materiale quando si fa massa. E questa massa s’incardina e si riunifica non tanto intorno ai beni quanto ai valori, ed è questa forma di massa che bisogna riuscire a definire e a capire come si possa sgretolare. Perché almeno il corpo del re era doppio, perché c’era ancora sacralizzazione del potere. Ora invece, con la secolarizzazione del potere, il corpo del popolo è unico, è univoco. (…)
Vedo insomma questa sorta di biopolitica di massa, in cui la singolarità è concessa nel privato ma è negata nel pubblico. Quel comune di cui si parla oggi, quell’in-comune sembra già tutto occupato da questa sorta di autodittatura, da questa specie di tirannia su se stessi che è la forma contemporanea di quella geniale idea moderna che è stata appunto la servitù volontaria. Dopo il tramonto delle gloriose giornate della lotta di classe, non ha vinto né il grande borghese né il piccolo borghese che abbiamo sempre odiato. Ha vinto il borghese medio. La democrazia è questo: non è la tirannia della maggioranza, è la tirannia dell’uomo medio. E questo uomo medio fa massa dentro la categoria nietzschiana degli ultimi uomini . (…)
La democrazia è antirivoluzionaria perché è antipolitica. C’è un processo di spoliticizzazione e neutralizzazione che la pervade, che la spinge, che la stabilizza. E questa antipolitica della democrazia è il punto che prendo come filiazione da tutta quella fase che ho detto dell’autonomia del politico. Del resto leggo empiricamente questo dato nella conquista e nella gestione del consenso con cui poi praticamente s’identificano i sistemi politici contemporanei. Ormai li chiamo non sistemi politici ma sistemi apolitici. La società occidentale è divisa non più in classi, in quella antinomia del passato, ma in due grandi aggregazioni di consenso, di pari consistenza quantitativa: in tutti i paesi occidentali questo consenso, dagli Usa a noi, quando si fanno i conti alla fine risulta 49 a 48, o 51 a 50. Il consenso, insomma, è diviso in due, perché? Perché da un lato ci sono pulsioni borghesi reazionarie, dall’altro pulsioni borghesi progressiste. Pulsioni, cioè riflessi emotivi, immaginari simbolici, mossi tutti e governati dalle grandi comunicazioni di massa. Pulsioni reazionarie, pulsioni progressiste che hanno in comune però questo carattere medio borghese. Da un lato il conservatorismo compassionevole, dall’altro il politicamente corretto. Questi sono i due grandi blocchi, l’alternanza di governo che offrono i sistemi apolitici democratici.

Critica élitista

In questa condizione non c’è possibilità né di essere né di fare maggioranza. Bisogna attestarsi su una condizione di minoranza forte e intelligente. È da tempo che vado suggerendo, senza grande ascolto, la necessità di rivisitare la grande stagione teorica degli élitisti (…) gli unici ad aver formulato una critica della democrazia prima dei totalitarismi. E se quella critica della democrazia fosse stata tenuta in conto, forse una correzione dei sistemi democratici non avrebbe permesso l’età dei totalitarismi. Fu una critica della democrazia, quella degli élitisti, non dal punto di vista dell’assolutismo. Ecco, su questo punto la filiazione invece è dall’operaismo, e qui chiarisco questa affermazione che chiara non sembra. Pensando e ripensando, mi pare di capire che la classe operaia è stata l’ultima grande forma storica di aristocrazia sociale. Minoranza in mezzo al popolo, le sue lotte hanno cambiato il capitalismo ma non hanno cambiato il mondo, e la ragione di questo è appunto tutta da capire, ma quello che si capisce bene è come il partito operaio sia diventato poi partito di tutto il popolo e come il potere operaio, la dove c’è stato, sia diventato gestione popolare del socialismo, perdendo per questa via la carica distruttiva antagonista. E questo è stato uno, non il solo, degli elementi che hanno reso possibile la sconfitta operaia.
Concludo. Non so se la moltitudine può intendersi come un aristocrazia di massa, se fosse così questi discorsi andrebbero in qualche misura a incontrarsi e allora quest’opera di decostruzione potrebbe dare luogo a uno scatto superiore. Ma so anche che se le condizioni che abbiamo descritto permangono, il soggetto s’imbriglia dentro questa rete. Se la moltitudine rimane imbrigliata nella rete dell’attuale democrazia reale credo che non ce la farà a uscire in modo risolutivo dalla stessa rete del potere neoimperiale. Caratteristica contemporanea dell’Impero è infatti quella di essere un Impero democratico. Se non si mettono in crisi queste condizioni lo stesso soggetto non riesce efficacemente a manovrare politicamente, qui dentro, con una rete alternativa, per un’altra possibile rottura storica.

(pubblicato su Il Manifesto del 22 ottobre 2005)