epimeteo

Sull’“impoliticità” politica di Husserl

La ricerca è motivata “dalle cose e dai problemi e non dalle filosofie”.

1920: “Ogni teoria per me non vale nulla, se non è per un nuovo mondo.” Husserl sottolinea a più riprese il carattere “rivoluzionario” della sua “riduzione fenomenologica”, da non intendere quale atto puramente teoretico, ma innanzitutto come volontà di autotrasformazione: “Io non riduco la filosofia ad una teoria della conoscenza e ad una critica della ragione”. Qui non si tratta solo di un interesse teoretico, bensì della necessità di una “lotta per una vita filosofica.” La riduzione implica dunque una “filosofia che va attuata con l’azione.” Se la finalità è una “vita filosofica” e non una semplice presa di posizione epistemologica, questo diventa il senso dell’intenzionalità di un “rivolgimento radicale” dell’esistenza umana (che nel lessico husserliano significa europea). Occorre passare dalla descrizione pura alla Kritik. In un’annotazione del semestre invernale 1922/23 viene precisato che la Kritik si deve estendere a tutte le formazioni di senso e investire il “presente vivente”, non solo per conoscerlo, ma per promuovere un altro stile di vita: “Una nuova vita, una nuova umanità richiedono una trasformazione di questo presente vivente (lebendigen Gegenwart)”.

Sono le vicende della prima guerra mondiale che contribuiscono a segnare una svolta, un approfondimento nella stessa percezione della portata della fenomenologia da parte dello stesso Husserl. Il suo atteggiamento verso la guerra muta profondamente con il 1917. Dopo l’iniziale adesione allo “spirito della guerra tedesca” e alla sua “vittoria indiscutibile”, come buona parte degli intellettuali tedeschi (le lezioni su Fichte, per altri versi importanti, ne sono in parte la testimonianza[1]), oltre ad un ulteriore chiarimento sul senso della valenza, non solo teoretica, della “conversione” trascendentale della soggettività, vengono poste in evidenza l’essenzialità della genesi di una motivazione antepredicativa e la sua ricaduta in termini di vocazione (Berufung) all’autoresponsabilità. E’ una presa di posizione che trasforma la vita in un’esistenza caratterizzata da una vocazione assoluta. Il soggetto “decide per se stesso, e in modo assoluto, in quanto <se stesso> – dal centro più intimo della propria personalità”. Con la fine della guerra in modo sempre più esplicito il quadro epistemologico husserliano si circoscrive in un orizzonte storico–culturale in cui vengono posti in discussione gli stessi canoni della modernità occidentale, dalle modalità in cui si è espresso il primo razionalismo al processo di tecnicizzazione dello stesso sviluppo scientifico. 

A fondamento di tutto ciò c’è la consapevolezza del possibile impatto di un’intersoggettività trascendentale sulla storicità nel suo sviluppo pratico e teleologico. Per questo occorre focalizzare un’identità intenzionale e la sua varietà di atti, non solo quale elemento di ideazione o di intuizione eidetica, ma in quanto “idee-forza” con cui intervenire sul mondo circostante. Husserl scrive ad Arnold Metzger il 4/9/1919: “Non è che la verità e la conoscenza scientifica contino per me come il valore più alto. Al contrario, <l’intelletto è servo della volontà>, e perciò sono anch’io un servo dei creatori pratici della vita, dei capi del genere umano.”

E’ da questo periodo che, non a caso, nel vocabolario husserliano ricorrono sempre più spesso termini come “rivoluzione”, “rivolgimento”, “rinnovamento”, “rigenerazione”, “trasformazione”, “riforma” etc. Husserl appare convinto di trovarsi di fronte ad una crisi culturale e sociale di dimensioni epocali che preludono quasi alla fine della modernità: “La modernità è alla fine, in questo crepuscolo che data dalla fine del XIX secolo sperimentiamo il fenomeno imponente del rapido svanire della stabilità”. Anche una ratio autonoma, un’intenzionalità quale conferimento di senso, una Stellungnahme, correlata ad un telos, sembrano aver perso il proprio significato originario di fronte alla rivincita del “naturalismo” di un’inesorabile “fatticità”. “Il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza”, l’accettazione della datità di un mondo ancorato al “senso comune”, ad un pervasivo nichilismo politico-esistenziale. Lo stesso procedimento di una tecnicizzazione della “scienza” con la riduzione del reale a natura quantificabile-misurabile ha finito per sovrapporre alla dimensione intenzionale-trascendentale un cieco empirismo. L’imporsi nel senso comune della potenza di una tecnoscienza onnipervasiva ha ridotto la soggettività a mera funzionalità impersonale di un mondo che appare come necessario. Qui la crisi delle “scienze europee” assume il significato di crisi non solo di un mondo sociale, ma di un’intera forma di civiltà. In Krisis i riferimenti ad un tale orizzonte sono espliciti; di fronte alla Kulturkritik, “oggi alla moda… che con tanto eccessivo zelo, degrada la Ratio”, ossia “l’irrazionalismo oggi molto amato”, una presa di posizione diventa estremamente decisa: “Mi sembra che io, il presunto reazionario, sono più radicale e molto più rivoluzionario di coloro che a parole si atteggiano oggigiorno, a radicali.” Occorre contrapporre al Mystizismus dilagante lo “spirito dell’autonomia che è la forza rivoluzionaria della civiltà europea”. Husserl si ritiene “più rivoluzionario” non solo rispetto agli adoratori del “Moloch dell’idea di potenza nella sua veste nazionalistica”, ma anche nei confronti degli stessi marxisti. Rare sono le osservazioni sul marxismo e sul Movimento Operaio nelle sue varie forme, ma in una lettera del 19/4/1919 a W. P. Bell definisce il bolscevismo come una “malattia dell’anima tedesca” (in realtà il riferimento è ai tentativi luxemburghisti). In seguito in una lettera del 1937 a Marvin Farber definisce il marxismo come una “filosofia della storia ingenua”, dove “ingenuo” significa un pensiero che rimane nell’atteggiamento “mondano”, empirico, passivamente fiducioso in una predeterminazione storica. Un tale tipo di pensiero non può fornire alcun solido fondamento ad un’idea, che presuppone il superamento dell’atteggiamento naturale. La critica si incentra non sulla “democrazia sociale”, quanto sul fondamento teorico, su una “filosofia naturalistica”, incapace di elevarsi tramite la coscienza ad un “ordinamento ideale di grado superiore”, un telos che “non è un carattere del mondo pre-dato come tale; esso non è qualcosa di <già esistente>, di già predelineato nella invariante struttura del mondo e che trovi rilievo come una struttura formale necessaria di un futuro che è materia di induzione”[2]. Per questo appare necessaria un’epoché della vita naturale e su tale presupposto è possibile porre in atto un “compito della volontà”, ossia una “organizzazione comunistica delle volontà [che] non può non essere un concetto trascendentale, in definitiva una formazione geistig.” Solo quando si comincia a autopercepirsi come soggettività trascendentale si può intravedere un orizzonte in cui “gli uomini vivano in una forma di accomunamento, differente da quella empirica.” Una motivazione, caratterizzata da un forte decisione a priori, è alla base di ogni atto. Un’intersoggettività intenzionale originaria rimanda a “motivi [che] sono spesso nascosti in profondità.”

“In corrispondenza con la natura in quanto unità delle cose veramente esistenti e come correlato della conoscenza, c’è (nella prassi e nell’orizzonte della soggettività trascendentale) la comunità umana, lo Stato come correlato della conoscenza pratica, come conoscenza pratica, come conoscenza dell’essere pratico, cioè di quello che deve essere mediante la volontà.” Conseguenza: l’attuazione di una “comunità umana” (antropologicamente “convertita”) passa attraverso una soggettività pienamente consapevole del proprio carattere trascendentale, a differenza del soggetto empirico, che non è in grado di trasformare radicalmente le condizioni di vita esistenti. Si può allora forse comprendere meglio l’opposizione husserliana al marxismo in quanto filosofia storico-materialistica e la sua stessa pretesa di essere “più rivoluzionario”. Se senza teoria è impossibile ogni trasformazione radicale, allora il terreno della riduzione fenomenologica appare decisivo, come essenziale appare la mediazione pratica di “soggetti che si scoprono essere volontà trascendentali e <non naturali>, di soggetti che si autopercepiscono già come <uomini nuovi> e membri di un’umanità di grado superiore.”

Prendendo in considerazione anche il “nazionalismo” in vigorosa ripresa, Husserl in una lettera del 1919 all’amico von Armin ritiene che a scatenare la guerra sia stato un “truce e falso nazionalismo”, che è riuscito a contagiate l’intera Europa. Infatti “quello sconvolgimento di coscienze, imperi, ordini sociali ed economici non è stato un evento esclusivamente attribuibile agli Imperi centrali e alla Germania in particolare. Le cause sono molto più profonde e più vaste… Il nazionalismo ha avuto una forte presa su tante coscienze, compreso il mio abbaglio.” L’dea centrale di tale nazionalismo è stata la Machtidee, la potenza nazionale come valore assoluto che ha assoggettato tutto e “ogni bene spirituale diventa oggetto di esaltazione nazionale, merce del mercato e della potenza nazionale.”Le cause di tale nazionalismo non andavano però ricercate solo in motivi socio-politici, ma anche nell’ambito della storia culturale europea. “La guerra che dal 1914 ha devastato (l’Europa) e, dal 1918, al posto della forza militare, la più raffinata tortura psicologica del bisogno economico, di per se stesso moralmente depravante, hanno rivelato l’intrinseca mancanza di verità e di senso della cultura europea.”[3] Così il nazionalismo rappresenta un “versante naturalistico” della Kultur europea, che pure ha nella propria matrice eidetica l’idea di “umanità europea”. Il naturalismo poggia infatti su una concezione dell’uomo come mera natura e non come intenzionalità o Geist. Quale derivazione dell’atteggiamento naturalistico, un tale nazionalismo dunque non sarebbe altro che una pericolosa ricaduta in quell’atteggiamento che Husserl, in un testo del 1924, raffigura in quelle immagini di Dürer della “morte” e del “diavolo” che la “coscienza europea, con fasi alterne, ha cercato di superare.” Scrive in una lettera a W. Hocking e W. Bell: “Quello che la guerra ha mostrato non è solo la povertà morale e religiosa dell’umanità, ma anche quella filosofica… Questa guerra… ha mostrato tutta l’impotenza e l’inautenticità delle idee dominanti.” L’Europa e la sua Kultur, il suo stile di vita sono precipitati in un’impotenza insensata; per questo ha potuto dilagare la barbarie. Nel 1931 Husserl scrive: “L’europeo, nel senso empirico del termine, è colui che vive nella tragedia della sua vocazione, nel suo incessante sforzo di salvare l’Europa dal nonsenso”.

 “Aber ich bin in Europa”. Le riflessioni di Husserl sull’Europa non parlano con il linguaggio abituale della politica; per lui l’Europa rappresenta un postulato pratico della ragione fenomenologica[4]. Non viene formulata alcuna prescrizione, a parte quelle relative alla scienza, su come sostenere o riformare le istituzioni che diano forma ad una vita politica europea. Chi è animato da interessi immediatamente politici potrebbe essere deluso di non trovare alcuna discussione normativa sul governo, l’economia, la guerra-la pace ecc. La rilevanza politica di Husserl non sta nel chiarire o applicare norme o ideali particolari, piuttosto risiede in una approfondita riflessione di chi siamo per orientarci a norme o ideali. Le sue riflessioni stanno alla base dei giudizi sulle istituzioni, le politiche o le forme di cultura europee, se promuovono o minano una propria concezione di fondo. L’Europa di Husserl è sì una comunità storica, ma orientata da idee-guida con l’idea di una propria forma di vita, che appunto viene chiamata “Europa”. Nella Conferenza di Vienna viene chiaramente affermato che l’idea di “Europa” si riferisce alla comunità stessa storica, “all’unità della vita spirituale, dell’attività, della creazione: con tutti i suoi fini, interessi, preoccupazioni e sforzi, con le sue realizzazioni, istituzioni, organizzazioni”.

Occorrerebbe innanzitutto liberarsi dalla “fatticità” della storia europea per coglierne l’idea portante, appunto l’a priori di una storia che ne informa l’unità; determinarne il postulato quale evidenza apodittica significa sottrarsi alla riduzione dell’Europa alla relatività di una “visione del mondo” tra le altre. Lo “stile” europeo è quello di una “vocazione assoluta” e l’Europa va pensata come “personalità di ordine superiore”, portatrice di un senso del mondo (Weltbild), quale progetto etico e pratico.

La riflessione husserliana sull’Europa non si svolge astraendo dalla storia, ma la catastrofe rappresentata dalla prima guerra mondiale ha contribuito alla constatazione che ormai l’Europa non è più se stessa, è crollata in una spirale autodistruttuva. Questa diagnosi divenne ancor più chiara con gli anni Trenta, quando Husserl, di fronte alla evidente crisi della civiltà europea sostenne la necessità del rinnovamento di una razionalità pratica. Di fronte ad una catastrofe spirituale e politica ogni risposta empirica non solo si dimostrava inefficace e di breve periodo, ma si rivelava come un sintomo di totale impotenza.

Tuttavia la “forza rivoluzionaria della civiltà europea”, malgrado tutto, può ancora contrapporsi al naturalismo e all’irrazionalismo. Infatti nella sua “forma spirituale”, nel suo nocciolo eidetico l’Europa è una “formazione sovranazionale”, “non è più un aggregato di nazioni contigue che si influenzano a vicenda soltanto attraverso il commercio e le lotte egemoniche, bensì uno spirito nuovo che deriva dalla filosofia e dalle scienze particolari che rientrano in essa, lo spirito della libera critica e della libera normatività, uno spirito impegnato in un compito infinito.” Una kollektive Einheit, un’unione che forma “un’oggettività di grado superiore” caratterizzata da una reciprocità di volontà e dal riconoscimento di un’intenzionalità comune di “ragione, valori e fini che forma l’identità stessa dell’Europa e dei suoi diversi popoli.” E una tale kommunistische Willenseinheit (unità comunistica di volontà), unificata da un telos, “non sarebbe una mera collezione di individui con la stessa volontà conforme agli stessi ideali”, ma una Willensgemeinschaft, un’unità di volontà orientata ad un proprio scopo. Qui   politikon e logon si coniugano, l’intensità istintiva-motivazionale con la volontà razionale della personalità politica nell’aspirazione ad una forma di responsabilità in relazione ad un ambiente sociale.

Se la soggettività trascendentale non può mai essere indipendente da un proprio mondo, il senso dell’Europa, la sua forma teologico politica è il risultato dell’elezione tra intenzionalità della persona trascendentale e spirito di una “casa”: l’uno indisgiungibile dall’altro. Ogni iniziativa può svilupparsi in relazione alle possibilità fenomeniche di senso; il processo di costituzione, un “afferramento” intersoggettivo trascendentale del mondo corrisponde al prender forma del mondo stesso. Nella concezione di un’Europa come unità di senso con proiezione universale, ethos e logos appaiono strettamente legati; elemento teoretico e pratico, rigore scientifico e sua attuazione rappresentano il carattere peculiare del modo di vita, dello “stile” dell’umanità europea attraversata costantemente da una rinnovata istanza teleologica, perché senza un telos l’agire non ha senso e una civiltà non sopravvive. Insomma è la dimensione trascendentale dell’Europa che richiama l’ʺunità di una vita, di un’azione, di un lavoro spirituale con tutti i suoi fini, gli interessi, le preoccupazioni e gli sforzi, con le sue conformità finali, i suoi istituti, le sue organizzazioni.”

Per concludere, si può leggere quest’ultimo passo, in cui la “critica di principio” decostruttiva esige però la capacità di elaborare “una riflessione ultima sui principi ultimi” e ciò a sua volta implica “una filosofia radicale”:

“Una nuova vita, una nuova umanità richiede una trasformazione di questo presente vivente in parte tramite la sua critica, in parte tramite la critica dei passati stessi che, nelle loro forme passate e ora non più operanti nella forma originaria, possono esigere di essere ridestati in modo nuovo, e richiedere alla fine, sulla base della valutazione dei dati mediati dalla critica, un modello per l’agire pratico progettato in autonoma razionalità. L’uomo autonomo vuole, dunque, costituirsi questo nuovo mondo, e ciò richiede alla fine una critica di principio, nonché una riflessione ultima sui principi ultimi, compresi i principi che rendono possibile la critica e che, per altro, rendono possibile una vera vita razionale… Il soggetto della ragione non può, però, essere il singolo, l’io isolato, che in quanto isolato non è né può essere, ma la soggettività della comunità. Ogni radicale rinnovamento dell’umanità nella direzione di un’umanità autonoma presuppone una filosofia radicale.”


[1] Il Fichte di Husserl non è tanto l’autore della Wissenschaftslehre, quanto il “riformatore etico-religioso, un educatore dell’umanità”, l’“uomo di volontà e azione” dei Discorsi alla nazione tedesca.

[2] Per altro Husserl appare molto meno critico verso il nascente Movimento Operaio che verso l’ideologia socialista, riconoscendo la legittimità dei movimenti politico-sociali contro “l’iniquità delle condizioni di vita degli <strati popolari inferiori>, che vengono tenuti lontano dalla pioggia d’oro prodotta dal nuovo modo di produzione”.

[3] Ratio per Husserl non è una facoltà o una tecnica, piuttosto è la struttura stessa dell’agire pratico di una soggettività trascendentale, è un’attività spirituale, un conferimento di senso, il carattere di una vita trascendentale che ha l’intelligenza dei propri istinti: dal desiderio di conoscenza, di amore, di autonomia e autoregolazione del proprio agire. “Ragione” esprime quelle idee che spesso storicamente vivono latenti nelle pratiche dell’umanità europea in un orizzonte di accomunamento: “la storia non è altro che il movimento vivente della comunanzae della vicendevole implicazione delle formazioni originarie di senso e delle sedimentazioni di senso”.

[4] Postulazione in questo contesto indica l’affermazione delle condizioni di possibilità per una finalità praticamente necessaria, altrimenti irraggiungibile, e la ragion teorica, pur non potendo ancora sapere se queste condizioni si possano verificare, tuttavia le afferma fin quando diventino effettuali.