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Filosofia della Riforma e teologia della rivoluzione

Mario Tronti

Prendo le mosse da un passo di Thomas Mann: dal discorso che tenne in occasione del suo settantesimo compleanno alla Library of Congress di Washington, il 6 giugno 1945. Il titolo è La Germania e i tedeschi. Stava parlando, Mann, della musica, rimproverando a Goethe, al suo Goethe, di non aver messo Faust in rapporto con la musica. E, sì, che la musica è sfera demoniaca, come aveva capito già Sören Kierkegaard. Ecco il passo, che ci fa entrare subito in tema: «Martin Lutero, gigantesca incarnazione dell’indole tedesca, era straordinariamente musicale. Io non lo amo, lo confesso apertamente. Ciò che è estremamente tedesco, separatista e antiromano, antieuropeo, mi sconcerta e mi spaventa, anche quando si presenta come libertà evangelica e come emancipazione spirituale, mentre ciò che è specificamente luterano, la villania collerica, le invettive, l’eruttare infuriato, la spaventosa vigoria mischiata a delicata profondità d’animo e a massiccia credenza superstiziosa nei demoni, negli incubi e nei mostri, suscita la mia istintiva ripugnanza. Non mi sarebbe piaciuto essere ospite alla tavola di Lutero, mi sarei probabilmente sentito come nella dimora di un orco, mentre sono persuaso che me la sarei cavata molto meglio con Leone X, cioè con Giovanni de’ Medici, il cortese umanista che Lutero soleva chiamare “la scrofa del demonio”, il Papa». Più oltre, non direi che attenua questo giudizio, ma lo corregge, guardando Lutero da un altro lato. «E chi negherebbe che Lutero fu uomo di inaudita grandezza, grande con tedeschissimo stile, grande e tedesco anche nella sua ambivalenza quale forza liberatrice e insieme reazionaria: un rivoluzionario conservatore. Non solo Lutero ristabilì la Chiesa, salvò anche il Cristianesimo …. Con il tedesco Martin Lutero, il Cristianesimo fu sentito con serietà ingenua e contadinesca in un’epoca in cui altrove ogni serietà era andata perduta».

Ho preso le mosse da questo discorso, perché lo trovo molto vicino al mio modo di sentire. Non sono uno specialista della materia e quindi mi muovo con cautela sull’argomento che oggi trattiamo. Ma la cosa che mi pare di cogliere con una certa chiarezza è questa ambiguità, o ambivalenza, della personalità di Lutero. Indubbia è la sua inaudita grandezza. E io credo che ogni misura di grandezza si paga con un tratto di ambiguità. Per cogliere l’intero va necessariamente messa in campo una doppia dimensione di personalità: anche scissa, e contraddittoria, che si fa fatica a portare a sintesi. E questo era Lutero, un’energia incontenibile, che provocava inquietudine di ricerca senza fine. C’è nella sua vita un crescendo di opere e di azioni, tutte segnate da un’indomabile volontà di lotta.

E’ il punto d’epoca che segna un salto nella lunga transizione dal medioevo all’età moderna. E Lutero sta nel mezzo di questa transizione. Naturale che risenta al massimo grado del peso del passato e della volontà di futuro. E’ insieme uomo medioevale e uomo moderno. C’è il grande dibattito su dove comincia effettivamente il Moderno: dalla Renaissance o dalla Reformation: dove nasce la libertà dei moderni, dove irrompe la sovranità dell’individuo? Si tratta in realtà di due mosse complementari. E l’Italia e la Germania sono protagoniste assolute, questi due paesi dalle grandi affinità storiche per percorso politico, che tardano a diventare nazione ma che precedono tutte le altre già formate nazioni nell’essere culture, cioè civiltà, nuove. La Germania del tempo era parte di un Impero, già sovranazionale – la mondializzazione della storia, dopo le scoperte geografiche, era virtualmente iniziata – e contemporaneamente era territorializzata in tante piccole sovranità dei principi elettori. Lutero sta tra Carlo V, sui cui possedimenti non tramontava mai il sole e Federico il savio, principe elettore di Sassonia, suo grande sostenitore. È infatti, dal fondo della Sassonia, dove Lutero nasce e muore, che parte quella che i seguaci chiameranno Riforma e gli avversari chiameranno rivoluzione luterana. Allora si credeva nei segni: e c’era stata nel 1484 una congiunzione tra Giove e Saturno sotto il segno dello Scorpione, letta come portatrice di terribili eventi. Adriano Prosperi ha ricordato una Pronosticatio del tempo che parlava della nascita di un monaco con un diavolo sulla spalla. In somma i tempi nuovi si aprivano con oscure profezie. Lutero ne risente molto con la sua cupa concezione di una umanità come massa damnationis: segnata dalla caduta del peccato originale e preda passiva delle quotidiane incursioni del demonio.

Warburg, ne La rinascita del paganesimo antico, introduce un capitolo su “La divinazione antica pagana in testi e immagini nell’età di Lutero”. E vede Lutero nell’ambiente delle idee teratologiche e astrologiche degli eruditi e degli artisti vicini a Massimiliano I d’Asburgo. Era il tempo dei monstra, che raffiguravano l’asino-papa o il vitello-monaco. Scrive Warburg: «Lutero interpreta, quasi da augure anticheggiante, questi monstra precisamente nella loro connessione storica sotto l’influsso del primo rinascimento tedesco dell’antichità demonica; ma dà ad essi un significato diverso, cristiano-escatologico…». Certo, avverte, queste arti divinatorie umane sono solo uno strumento ausiliario, in sottordine di fronte alla forma suprema del profetiamo come missione personale, vissuta religiosamente. È Lutero che si esprime su di sé in questo modo nello scritto Avvertimento ai suoi cari tedeschi, 1531: «Perché sono il profeta dei tedeschi (giacché tale titolo altezzoso dovrò d’ora innanzi darmi io stesso, per piacere e soddisfazione dei miei papisti asini)».

C’è dunque questo sfondo oscuro dietro la costruzione vista come illuminata della proposta luterana. Una proposta che verrà avanti come Protesta. L’occasione viene offerta dalla condizione storicamente determinata della Chiesa cattolica: la corruzione della corte papale era l’altra faccia del mecenatismo artistico di pontefici illuminati che davano a Roma immensi capolavori. La stessa vendita delle indulgenze veniva anche giustificata come necessità di finanziamento della fabbrica di S. Pietro. Tutti i processi storici sono ambigui. Qui ci sono giovani intellettuali in formazione: vorrei raccomandare loro di leggere sempre questi processi, che vengono regolarmente presentati nella loro apparente univocità, leggerli invece nella loro reale duplicità. Il tipo di assetto sociale, e politico, in cui viviamo, lo stesso che ha preso inizio dagli eventi che stiamo trattando, il tempo moderno, si dice, che ha però un altro nome, quello di un ordine capitalistico-borghese, si rappresenta sempre in questo gioco di apparenze e di realtà, che serve al nascondimento delle condizioni vere, molto funzionale a un esercizio, in forme nuove, di un antico e sempre eguale esercizio del dominio. È Marx che ci ha insegnato a fare, prima dell’analisi della realtà, critica dell’ideologia.

Consiglio di leggere un testo su “Il concetto di lavoro in Marx alla luce di Lutero”, di Massimo De Angelis, che verrà pubblicato negli atti di un Convegno organizzato dalla Pontificia università della S. Croce. E c’è naturalmente da richiamare la magistrale elaborazione weberiana sul lavoro come professione, che è nello stesso tempo vocazione, espressa nel termine-concetto di Beruf: parola tedesca, forse ancor meglio detta – dice Weber – nell’inglese calling, chiamata, «che riecheggia un concetto religioso, quello di un compito imposto da Dio». Lutero sviluppa questa idea nel primo decennio della sua attività riformatrice. Di lì poi Beruf diventa dogma centrale di tutte le denominazioni protestanti, contro la distinzione cattolica dei comandamenti etici del cristianesimo in praecepta e consilia, quel Beruf che, sostiene ancora Weber, Lutero riconosce come solo mezzo per vivere in maniera grata a Dio, di più, per avere il privilegio della sua Grazia, adempiendo con responsabile coscienza ai propri doveri mondani. Così la paolina prima ai Corinzi viene letta con quel bleibe in deinem Beruf, resta nel tuo mestiere o professione. Come si legge nel distico della locandina che presenta questo incontro, il potere mondano può stare tranquillo, la libera coscienza del credente non lo disturberà. È la famosa disputa su de servo o de libero arbitrio che opporrà Lutero ed Erasmo. Ecco, sola fide o sola Scriptura, che appare, e in quella contingenza anche è, sommovimento liberatorio – Lutero eleutherios -, la “libertà del cristiano” appunto, che legge e interpreta la Bibbia nel proprio tedesco, non più nel latino della Chiesa di Roma, l’affidamento alla coscienza personale della professione di fede, tutto questo diventa poi nel tempo un fatto ordinamentale degli assetti reali presenti. L’etica protestante, soprattutto nell’estremizzazione calvinista, si mostrerà la condotta individuale-sociale più adatta, più organica allo spirito del capitalismo.

La sessione di questa mattina è intitolata Filosofia e politica. Quindi anche di questo dobbiamo parlare. Ma qual è la filosofia, se c’è una filosofia, di Lutero? I suoi autori di riferimento sono Agostino e Paolo, su cui cerca una spericolata sintesi. Si tratta di agostinismo politico e di paolinismo politico o, se volete, teologico-politico. Il tempo e l’ambiente sono quelli di una reazione antitomistica. Ne fa le spese, nelle grinfie di Lutero, secondo me incolpevole, lo stesso S. Girolamo. È che sta faticosamente emergendo, ancora tra grandi contraddizioni, quello che sarà il soggetto moderno, l’individuo che reclama libertà dall’autorità. Il percorso sarà lungo e arriverà molto lontano. L’approdo classico, quello forse filosoficamente più sistematico, sarà Hegel, al culmine dell’idealismo tedesco. Non a caso ancora Germania. Anche se è nel mondo anglosassone che la sintesi di protestantesimo e capitalismo troverà il suo trionfale compimento. Non poteva che essere così. È lì che la rivoluzione di Lutero si risolve nel conservatorismo, quel che è stato detto il quietismo, del luteranesimo.

La società del tempo è in subbuglio. Si ridisegnano rapporti sociali tradizionali. Nuovi protagonisti emergono nel campo delle classi privilegiate, antiche servitù si aggravano nelle classi subalterne. C’è quella che gli economisti hanno chiamato “la rivoluzione dei prezzi”. I movimenti nel prezzo del grano arricchiscono i proprietari di terra, immiseriscono i lavoratori della terra. E la Germania di allora è ancora Bauernland, terra di contadini. Ci si è chiesto se Lutero avesse immaginato, mentre affiggeva le sue Tesi, che cosa ne sarebbe seguito. Probabilmente, no. Accade che un gesto, tutto sommato minore, scateni le maggiori conseguenze. È raro. Più comune è il grande gesto che rimane senza esito. Dipende dal terreno su cui cade il seme. Lì la scintilla che incendia la prateria, come si è detto per altre occasioni, ha funzionato. Allora, non c’era solo il conflitto aperto tra la Protesta e la Chiesa, non c’era solo la lotta sorda tra i Principi e l’Impero, viene a manifestarsi, imprevisto, un terzo scontro, tra il basso e l’alto della società. Una volta scoperta la parola di Cristo, letta come “Parola vivente” nel linguaggio degli anabattisti, si arriva a incendiare i castelli dei signori. La guerra dei contadini in Germania, 1524-26, è una tappa della lunga storia delle irruzioni di rivolta degli oppressi contro i loro oppressori.

La personalità-simbolo di questa guerra è Thomas Müntzer. Ve lo presento con questa citazione: «Era tutto torbido intorno a lui, fin da principio. Crebbe quasi abbandonato, il giovane e malinconico uomo. Figlio unico di gente modesta, nacque a Stolberg, intorno al 1490. Presto gli venne a mancare il padre, la madre, maltrattata, si cercò di cacciarla dalla città col pretesto che non aveva mezzi per vivere. Sembra che il padre, vittima dell’arbitrio di qualche ricco notabile, sia finito sulla forca». La citazione è tratta da uno splendido libro. Uno di quei libri che bisogna avere la fortuna di leggere da giovani. Perché dopo… è tardi. Diventa tardi, perché si perde con lo stare al mondo, in questo mondo, la capacità di capire e di “sentire” insieme, davanti a un libro come davanti a un evento. Per conservare questa, anche qui, doppia dimensione di pensiero e sentimento, occorre coltivare la fiamma della passione, sociale e politica, che si esprime in una volontà di lotta.

Di Müntzer è uscito da poco, presso Claudiana, un testo che raccoglie Scritti, lettere e frammenti. La presentazione del curatore va verso una lettura polemica con il grande libro di cui vi sto parlando. Ignoratela. Il libro è questo: Thomas Müntzer teologo della rivoluzione: Ernst Bloch lo scrive nel 1921, tre anni dopo l’altra grande opera, Lo spirito dell’utopia. Lo stile è quello immaginoso, la lingua è quella dirompente, dell’espressionismo. Qui utopia e profezia non si contraddicono, piuttosto si completano. E questo completamento si ritrova nella figura del rivoluzionario mistico Müntzer. Sì, della riforma, di qualsiasi riforma, si può dare filosofia, quando si presenta in grande e si scrive con la maiuscola, come quella di Lutero. Della rivoluzione non si dà filosofia, si può dare solo teologia. Perché la rivoluzione mira all’oltre, trascende la realtà data che un agire immanente vorrebbe riformare. La rivoluzione è profezia, in quanto attesa di, è utopia, in quanto aspirazione a.

Schwärmerer, entusiasti era il nome che si davano i ribelli. Nei “dodici articoli di Memmigen, il loro programma, i contadini usavano lo stesso linguaggio biblico di Lutero, richiamandosi alla parola di Dio. Non bastava certo. Lutero rispondeva presto, nel maggio del 1525, con il libello Contro le empie e scellerate bande di contadini. E rincarava la dose con la Replica del dottor Martin Lutero riguardo al libretto contro gli empi e scellerati contadini dettata nel giorno di Pentecoste, con l’accusa di voler attuare sulla terra quella giustizia che si può avere solo nel regno dei cieli. Müntzer non era da meno, quanto a violenza del linguaggio, e non solo. Da Norimberga, stila e fa stampare quello che sarà il suo ultimo testo: Confutazione altamente motivata e risposta alla carne senza spirito che vive mollemente a Wittenberg e che in modo manifesto, mediante il furto della Scrittura, ha macchiato miseramente la compassionevole cristianità. Sappiamo come è finita. Nella battaglia di Frankenhausen, seimila contadini massacrati e, dopo, lo stesso Müntzer, torturato e giustiziato.

Lascio che tiri le conclusioni Bloch, che può farlo molto meglio di noi. Lo fa, come a noi piace, da marxista eretico: «La trattazione puramente economica non basta a spiegare in maniera esaustiva, nella totalità delle sue cause e delle sue condizioni, anche solo la comparsa di un avvenimento storico del peso della guerra dei contadini e tanto meno tale analisi è in grado di dissolvere e distruggere i contenuti più profondi di quella storia dell’uomo, che qui si fa incandescente, e l’immagine del sogno ad occhi aperti dell’anti-lupo, del regno finalmente fraterno…».

E’ vero che anche Marx riconobbe l’importanza dell’entusiasmo e dell’impulso almeno all’inizio di ogni grande rivoluzione. Pensate, aggiungo io, alla passione con cui salutò l’eroico tentativo dei comunardi, e ancora prima la disperata rivolta degli insorti di giugno nel ’48 sempre a Parigi. Poi, però, dice Bloch, finì per restringere in senso positivista il comunismo da teologia a nazional-economia, a economia politica, diremmo oggi, e a nient’altro che questa, togliendogli così tutta la dimensione del suo concetto chiliasta.
Ecco, il chiliasmo, il millenarismo, l’attesa apocalittica del regno, in senso secolarizzato, il rovesciamento sottosopra dell’ordine esistente, che spinge all’azione risolutiva chi ha da perdere nient’altro che le proprie catene: la Riforma, dentro una contingenza storica determinata, molto determinata, aveva innescato una volontà di rivoluzione che scagliava il principio-speranza in un oltre, in un al di là, non solo di nuovi cieli, ma di nuove terre. E non c’è solo questo, c’è di analogo e anche di diverso rispetto a questo, la tradizione della mistica tedesca, la mistica renana, quella speculativa, del grande Meister Eckhart e di Margherita Porete. E poco lontano, gli Hussiti avevano già dato fuoco alle polveri.

Dunque, Bloch: «Per quanto riguarda il caso particolare della guerra dei contadini, dell’iconoclastia, dello spiritualismo, deve essere considerato in sé, accanto agli elementi economici esistenti di natura disgregante e di contenuto conflittuale, l’elemento originario essenziale: come pratica del sogno più antico, come vastissima esplosione della storia eretica, come estasi del camminare eretti e della volontà di paradiso, volontà impaziente, ribelle e ferma».
Guardatevi intorno, nella miseria del presente, se trovate qualcuno in grado di pensare, e di scrivere, in questo modo.

(Testo dell’intervento di Mario Tronti tenuto il 16 gennaio 2018, presso la Sala Capitolare del Convento dei Domenicani di Santa Maria sopra Minerva, in occasione di una giornata di studio per il cinquecentesimo anniversario della Riforma protestante)